"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

giovedì 8 maggio 2014

La divina, di Sergio Pitol, Sur editore

  La "divina" è Marietta Karapetiz, intellettuale e antropologa, erede del lascito culturale del defunto marito, a sua volta antropologo di culto di fama mondiale. "Divina" in un senso che difficilmente può essere colto in tutto il suo significato se non una volta giunti alla fine (scatologica) del libro. La Karapetiz, donna affascinante, dal carattere indubitabilmente turbato, di nazionalità incerta, ex massaggiatrice, che intrattiene un rapporto al limite dell'incestuoso col fratello Sasha, è l'incarnazione del dionisiaco nel reale (nel reale letterario, ovviamente, e nel reale letterario di questo libro in particolare, ancora più ovviamente): è l'incarnazione della mente quando, al massimo del suo sforzo di comprensione della natura umana, scivola nel delirio degli istinti, dei sensi e delle aberrazioni da cui inevitabilmente questi sono accompagnati. Dioniso appunto. Il lato oscuro dell'afflato verso il divino. La trascendenza che porta all'abbattimento di ogni regola e tabù. Dante C. de la Estrella è il narratore di tutta quanta la storia (anche se, come specificherò dopo, è da subito incasellato dallo scrittore nel ruolo evidente - ed evidenziato dall'autore - di personaggio, anzi, a dirla tutta, di personaggio che altro non è che la maschera di una persona reale, conosciuta dallo scrittore stesso): si trova in casa della famiglia Millares quando all'esterno si scatena un temporale che non gli permette di andarsene, e a quel punto un istinto insopprimibile quanto bislacco (quando non involontariamente comico e patetico) lo possiede e lo porta a raccontare un episodio chiave della sua giovinezza: un viaggio ad Instanbul. Viaggia come ospite di un amico e della di lui sorella (una sorta di ebete, almeno agli occhi del narratore) alla volta della capitale turca per incontrare appunto Marietta Karapetiz, figura idealizzata nei racconti dell'amico allo strenuo di una vera e propria guru dell'antropolgia, nonchè una donna dal fascino inesausto e selvatico. Tutto il libro è la ricostruzione, filtrata dal ricordo e dalla ferita che quell'episodio ha inscritto nella psiche e nella vita di Dante C. de la Estrella. In pratica, l'umano che incontra il dionisiaco o, per essere più precisi, la tipologia dell'essere umano medio (volgare, egoista, tirchio, rozzo, grossolano, ma che vede sè stesso come il suo esatto contrario, ossia un esempio di virtù assortite) con il dionisiaco appunto: la sottigliezza d'intelletto, la cultura, la follia, l'imprevidebilità, la mancanza di freni e via discorrendo. Ma Dante C. dela Estrella altri non è se non Pepe il rozzo (Josè Rosas) vecchio compagno di università dello scrittore (presumibilmente Pitol stesso) , persona dalla grigia banalità ma che, nella sua passione che sfocia nell'idolatria nei confronti di Dante Alighieri e della sua opera, vede riflesso sè stesso come in uno specchio piacevolmente deformante. Nel primo capitolo Pitol si lancia in una meta narrazione in cui narra di uno scrittore che decide a mente fredda di cosa tratterà il suo prossimo libro e quali personaggi lo abiteranno. Tre saranno i capisaldi nonchè le linee narrative del libro dello scrittore: il tema della festa (in senso dionisiaco ed antropologico) incarnato nel personaggio di Marietta Karapetiz, l'idolatria letteraria che nel libro vedrà Gogol sostituire Dante Alighieri e la tipologia umana di cui sopra, perfettamente inscritta nei panni di Dante C. de la Estrella, clone di Josè Rosas, alias Pepe il rozzo. Chiuso il primo capitolo, comincia il libro che lo scrittore ha appena pianificato sotto i nostri occhi. In effetti, strutturalmente non si può definire un libro nè semplice nè tantomeno lineare, e la narrazione che prende il via dal secondo capitolo (il libro dello scrittore) complica vieppiù le cose. Abbiamo un narratore terzo (lo scrittore, forse sovrapponibile a Pitol) che racconta di Dante C. de la Estrella a casa dei Millares che, a sua volta, racconta del suo viaggio ad Instabul. All'interno del racconto del viaggio, di volta in volta, i vari personaggi parlano in prima persona (divenendo a loro volta narratori) all'interno dei ricordi in terza persona di Dante C. de la Estrella. Riassumiamo il tutto: ci troviamo di fronte almeno a tre livelli di narratori: il primo, lo scrittore, il secondo, Dante C. de la Estrella, il terzo, i suoi compagni di viaggio, Rodrigo e Ramona Vives, Marietta Karapetiz, il fratello Sasha ecc. I piani sono dinque tre, a meno che non si voglia considerare che scrittore ed autore non siano sovrapponibili ma siano due narratori distinti, ed a questo punto, i piani diventano quattro, strutturati come segue: un primo capitolo "didattico-metanarrativo" in cui lo scrittore ( il presunto Pitol, ma che potrebbe non essere Pitol) ci spiega il senso di quanto seguirà, la narrazione successiva (il libro dello scrittore) che vede un narratore terzo (lo scrittore appunto) che fa parlare in prima persona il narratore in seconda (Dante C de la Estrella) all'interno del cui racconto i personaggi parlano a loro volta in prima persona. Un discreto casino. Io so che tu sai che lui sa. Anzi, io dico che lui dice che quell'altro ha detto. Una cosa del genere. L'impressione personale di chi recensisce è che il primo capitolo sia stato scritto per ultimo, al fine di fungere da bussola in un dedalo che è, anche se non soprattutto, un fine esercizio di stile e una dimostrazione di perfetta gestione delle strutture narrative. Il materiale narrativo è, nelle mani di Pitol, una matassa esplosiva di storie e intrecci, balbettii e passaggi di parola da un personaggio all'altro, e la maestria dell'autore sta proprio nella capacità di saper domare fino all'ultimo la materia che pare, da un momento all'altro, sfuggirgli dal controllo e deflagrare in una cazzata tremenda. Un magnifico esercizio di stile e di polso saldo che però sfocia, di tanto in tanto, nella noia e soprattutto nella prolissità che è il limite più grave del romanzo, perchè è proprio nella prolissità che si scorge la fatica di Pitol nel gestire il suo intreccio e la volontà logorroica del suo protagonista. Si ha un po' l'impressione di essere spettatori a naso in sù di un acrobata che cammina su un filo sospeso a diversi metri da terra: la tensione in noi spettatori rimane viva fino a quando non ci si rende conto che la lentezza dei movimenti dell'artista gli permetterà sicuramente di portare a termine la sua camminata. A quel punto, soltanto una caduta, potrebbe svegliarci dall'ipnotico torpore dello spettacolo cui stiamo assistendo. Eppure è spettacolo.

Sergio Pitol (1933) è uno dei principali scrittori messicani viventi. Sin dagli inizi ha affiancato all'attività letteraria la carriera diplomatica e l'attività di traduttore (Austen, Vittorini e Conrad tra gli altri). Dal suo esordio nel 1959 ha pubblicato venticinque opere di narrativa. In Italia sono stati tradotti: La vita coniugale e Il valzer di Mefisto, entrambi per Sellerio

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