"E di colpo percepisce in quella dichiarazione una minaccia. Qualcosa che si avvicina dalla parte del mare. Qualcosa che avanza trascinato dalle nubi scure che attraversano invisibili la baia di Acapulco."
Roberto Bolano, (da Ultimi crepuscoli sulla terra; Puttane assassine)

domenica 18 dicembre 2011

L'occhio dello zar, di Sam Eastland, il Saggiatore edizioni

Con questo romanzo, estremamente ben documentato da un punto di vista storico, ci è dato sbirciare dall'interno cosa sia stata la rivoluzione bolscevica in Russia. Non uno sguardo partecipato e sanguigno, la condanna per le atrocità commesse o l'euforia per un'utopia messa in piedi nel mondo reale non si percepiscono, se non eventualmente come sfondo, quasi si trattasse di sussurri lontani, ma in realtà lasciano sempre il dubbio che si tratti più di opinioni del lettore che non di indicazioni lasciate a bella posta dall'autore. E forse è così. Ci troviamo più che altro di fronte allo sguardo di uno storico che, introiettata la freddezza dei paesaggi siberiani, ci descrive passo passo cos'è avvenuto sul palcoscenico della storia e, soprattutto, cosa è avvenuto dietro i pesanti tendaggi che spesso celano le infinite storie che compongono la Storia. Uno storico, uno scienziato sotto acido, verrebbe da dire riferendosi a Sam Eastland, l'autore di questo perfetto giallo storico, se non fosse che verrebbe da pensare ad una sorta di Irvine Welsh: niente di più lontano. Sam Eastland compone un romanzo convenzionale nella forma, avvalendosi di una scrittura impeccabile ma sostanzialmente piatta, in tutto e per tutto al servizio della storia che racconta. La stessa scansione dei capitoli che rimbalzano tra passato e presente è quanto di più banale ci si può aspettare da un meccanismo narrativo. La definizione di storico (o scienziato) sotto acido va riferita al complesso del libro. La ricerca storica è inappuntabile e viene fatta attanagliare al plot narrativo come un abito che gli calza dannatamente bene. Ci lasciamo trascinare da una detecion story e nel contempo ci muoviamo all'interno dei corridoi enormi della Grande Storia. Attenzione, per quei corridoi così austeri ci permettiamo di addentrarci con leggerezza, senza la pesante consapevolezza che il luogo richiederebbe. Spero di aver reso l'idea.
Pekkala, dunque. Il protagonista di questa storia ha un nome improbabile, Pekkala appunto, almeno alle orecchie di un non finlandese, perchè è proprio dalla Finlandia che questi arriva, quando ancora la Finlandia era territorio della Grande Madre Russia. Viene mandato dal padre - che lo aveva destinato secondo i suoi progetti a proseguire la sinistra attività di famiglia, un'impresa di pompe funebri - a Pietrogrado, per entrare a far parte della Legione Finlandese dello Zar, il più alto onore che un padre (finlandese) potesse sperare per il proprio figlio (finlandese). Qui Pekkala viene preso a ben volere dallo Zar Nicola II, che per lui inventa una carica mai esistita prima e che lo pone, nei suoi doveri di responsabile della sicurezza dello zar, al di sopra dello zar stesso. Presto dimostra le sue capacità investigative al limite del paranormale, prima tra tutte la sua prodigiosa memoria, e diviene famoso nella cerchia dello corte e agli occhi del popolo come l'Occhio di smeraldo. Detta così suona un po' come una stronzata, del tipo All'inseguimento della pietra verde, ma nel romanzo giuro che funziona. Comunque, il soprannome in effetti non è il punto del forte del libro, siamo d'accordo. Via, riprendiamo: con lo scatenarsi della Rivoluzione d'Ottobre, Pekkala viene incarcerato ed interrogato dal nuovo sistema di potere, i Rossi, e spedito in Siberia a spezzarsi la schiena aspettando di essere liberato dalla morte. Invece, anni dopo, il presente storico del libro, a richiamarlo alla vita libera un giovane ufficiale dell'esercito sovietico, Kirov, un cuoco... anzi, uno chef strappato alla cucina dalle improrogabili necessità della rivoluzione. Il compagno Stalin in persona gli promette la libertà se metterà le sue doti di investigatore al servizio del popolo e del Soviet per scoprire se, effettivamente, i Romanov (vale a dire i suoi vecchi datori di lavoro) siano stati effettivamente uccisi, e dove siano stati seppelliti. Da qui in poi si sviluppa una trama interessante, storicamente credibile, ben scritta, con stile asciutto e preciso, una storia solida, appassionante e ricca sia di colpi di scena che di paesaggi ed atmosfere nelle quali non siamo abitutati a muoverci, neppure con la fantasia e che però fanno parte dell'inconscio collettivo. Quella zona dell'inconscio collettivo che ne è la periferia: lande fredde e messe un po' al bando dal baluginìo delle fantasie moderne, tutte improntate a serial killer americani, metropoli, complotti mondiali e bellone ipersexy sempre sull'orlo dell'orgasmo. Per questo, per la sua natura periferica, questa parte di inconscio collettivo riveste un fascino assolutamente speciale. Uomini venuti dal freddo, paesaggi lunari, città coperte di neve e ghiaccio, villaggi dimenticati da Dio e coperti dal fango e dalla fame, uniformi severe di imperi scomparsi e simboli che, dal presente del romanzo, assugeranno in fretta agli onori della cronaca mondiale. Falci, martelli, finti villaggi perfetti per ingannare l'occhio di chi guarda. Donne che aspettano il proprio uomo, o forse no.
Potrebbe essere un romanzo ottocentesco, o un saggio storico, e invece è un perfetto giallo che si fa divorare dal lettore. E Pekkala, protagonista algido e appassionante al contempo, non ci resta che seguirlo nella seconda puntata pubblicata in Italia sempre da Il Saggiatore: Bara rossa.

  La cosa migliore che si può dire di Sam Eastland, è che è uno pseudonimo. Dovrebbe essere un autore inglese che vive negli Stati Uniti, questo è quanto si sa di lui. Non ho trovato foto sue, e quindi qui accanto, nell'ovvia impossibilità di postare una foto di Pekkala, ho scelto di mostrare una foto dello zar Nicola II e della sua famiglia.
  Mi stupisco che non sia ancora stato tratto un film da questo libro.

domenica 27 novembre 2011

I falsificatori / Gli illuminati, di Antoine Bello, Fazi editore

  Il romanzo incomincia con tale Gunnar Eriksson che assume tale Sliv Dartunghuver nella società di studi ambientali che dirige, a Reykjavìk. La società, è solo una copertura. I due personaggi ce li porteremo avanti per mille pagine, fino ad ora almeno, ignoro se sia previsto un terzo libro per poter assurgere al grado di trilogia, ma potrebbe benissimo essere. Ora, due personaggi maschili, e uno femminile, Lena Thorsen, di una bellezza algida e calcolatrice, in nord europa, a Reykjavìk. Non è un giallo nordico, per fortuna. E non è un noir nordico, sempre per fortuna. Apro una parentesi, quando parlo di romanzo mi riferisco ad entrambi i libri, vale a dire I falsificatori e Gli illuminati, perchè in realtà è esattamente ciò che sono, parti diverse di uno stesso romanzo, pubblicati in momenti diversi per ovvie ragioni commerciali. Sliv verrà convocato da Eriksson che gli proprorrà di entrare a far parte de CFR, vale a dire del Consorzio di Falsificazione della Realtà. Da qui in avanti incomincia la storia vera e propria, che in realtà non è importante, come quasi mai lo sono le storie in sè: ci saranno personaggi che si aggiungono, coppie che si formano, momenti di tensione, tentativi di comprendere sè stessi, pericoli veri o presunti per la propria o altrui incolumità e via discorrendo. Vale a dire ciò che ci si aspetta da un romanzo che possa avvincerci. C'è tutto. Tutto quanto diluito in mille pagine. La vita non come la conosciamo ma come vorremmo che fosse: interessante, avventurosa, sorprendente. Ciò che non è la nostra: noiosa, piatta, banale. Ma non è questo il centro pulsante della narrazione. Il punto di fuoco del romanzo è la capacità di mettere seriamente in dubbio il nostro modo di vedere il mondo. Se la cagnetta Layka non fosse mai stata spedita in orbita? Se Cristoforo Colombo non fosse lo scopritore del continente americano? Se. Se. Fino a qui, non ci troviamo di fronte ad una rivoluzione copernicana, in fondo internet è pieno di teorie del complotto o revisioniste. Esiste, in questo romanzo, un ulteriore slittamento di senso: se invece il complotto fosse stato applicato non a posteriori per mettere in dubbio una verità acclarata, bensì giorno per giorno per crearne di nuove che diverranno esse stesse verità ufficiali? Se il ritocco della realtà servisse a far emergere la verità di un avvenimento, altrimenti soffocato dalle varie cortine fumogene delle innumerevoli ragioni di stato (politiche, religiose, economiche e geopolitiche)? Chi è dunque che dà il senso con cui interpretare la realtà, e perchè? Quali sono i fini del CFR?  Che cos'è il CFR? Una multinazionale segreta della contraffazione, potrei definirla così, e credo che non sbaglierei di molto, sempre volendo ammettere di aver sbagliato. Sliv è uno scenarista, il migliore della sua generazione. Sceglie un argomento, decide come cambiarlo, individua i punti nodali sui quali è possibile ammorsare la nuova storia, e la cuce su misura. Gli scenari possono essere di piccola, media o enorme portata, e avere risvolti minimi o epocali. L'importante - l'essenziale direi - è che lo scenario sia perfetto, che non abbia punti deboli. Inattaccabile. Poi, al lavoro dello scenarista si somma quello del falsificatore. Lena Thorsen è una falsificatrice, la migliore della sua generazione. Il falsificatore studia lo scenario e verifica tutti i punti che necessitano di pezze d'appoggio reali. Inserisce falsi documenti negli archivi, procura testi inesistenti di bibliografie inesistenti. Redige certificati di nascita e morte. Modifica le dichiarazioni di personaggi storici creando falsi articoli di giornali, e via discorrendo. Gli scenaristi mettono insieme la storia, e quindi modificano il senso e la direzione della realtà, i falsficatori forniscono pezze d'appoggio affinchè la storia si trasformi in realtà. Il CFR ha antenne sparse per il mondo, le antenne sono le sedi, ogni sede ha una sua funzione specifica. Un'immensità di uomini e donne che hanno lavori di copertura ma che in realtà tramano per dare un senso alla vita. Quale senso, però? Sliv e Lena si scontreranno e si perderanno lungo tutto l'arco del romanzo (dei due libri, delle mille pagine), si attrarranno e si respingeranno, facendosi male e forse provocandone. Metteranno in piedi scenari e li renderanno reali. Sliv si costuirà una rete di poche ma salde amicizie, ma sempre, in fondo, rimarrà aleggiante la domanda di fondo. Qual'è la vera ragione d'esistere del CFR? La sua ragione sociale, diciamo. Il suo obiettivo? Dove vuole arrivare? Cosa vuole fare del mondo? La risposta a questa domanda è il vero motore che regge e permette al romanzo di evolversi e di crescere per accumulazione. e quando finalmente ne saremmo messi a conoscenza, noi e Sliv, una vertigine ci riporterà alla domanda primigenia dello stare al mondo. Perchè? Perchè la guerra in Iraq? Il CFR vuole la guerra in Iraq, o la vuole ostacolare? Ha creato scientemente delle false prove per avallarla o qualcuno dal suo interno ha tradito? Il CFR è bene o è male?
  E' difficile definirlo, questo romanzo, perchè non è un giallo, non è una spy story, non è un romanzo main stream, forse (e sottolineo forse) lo si può considerare un romanzo di formazione. Potrebbe essere un romanzo filosofico, ma ha una struttura troppo commerciale per esserlo realmente, e una scrittura scorrevole ma piatta, priva di slanci. Però rimane imprescendibile ugualmente, al giorno d'oggi. E' una riflessione che unisce diversi generi su cosa sia la realtà e su cosa stia dietro di essa, sul significato che hanno le nostre vite e su quello che noi stessi decidiamo di porvi. La verità, intendo il concetto stesso di verità, invece viene scardinato nel breve volgere di poche pagine, e gettato alle ortiche come un qualcosa di vecchio e ormai inutilizzabile.

Antoine Bello, nato in Canada, cresciuto in Francia e ora residente negli Usa, è autore di Elogio del pezzo mancante, pubblicato in Italia da Bompiani.
  I falsificatori e Gli illuminati sono stati avvicinati alla poetica di Borges, ma non vi hanno nulla a che vedere.

lunedì 14 novembre 2011

La gamba sinistra di Joe Strummer, di Caryl Férey, e/o edizioni

  A McCash manca l'occhio destro, perso in un pub di Belfast, sfondato dal calcio di un fucile, ma questo è un avvenimento di molti anni prima, quando ancora credeva nell'Ira. Poi è finito in Francia e si è ritrovato a fare il poliziotto. Adesso, nel momento in cui facciamo la sua conoscenza, è steso su un lettino con un dottore che lo rimprovera per non aver mai pulito la sua protesi (l'occhio di vetro), e per non averla mai cambiata. McCash è scosso da dolori lancinanti che gli perforano la cavità oculare e gli strapazzano il cervello, la sua "bestia" personale. Da sotto la benda di cuoio nero gli sgorga liquido giallastro che non lascia intendere nulla di buono. McCash è stanco, rassegna le dimissioni ad un passo dalla pensione, ripensa amaramente alla moglie che lo ha abbandonato (con tutte le ragioni, tra l'altro). E' il classico tipo che, per noia o per destino, le donne le ha perdute. Come ogni noir che si rispetti sta raschiando il fondo dell'esistenza, con le unghie, quello strato putrido di sozzura che si accumula inevitabilmente col passare dei giorni, a voler vivere. Ed è ad un passo da premere il grilletto che spazzerà via ogni cosa, sozzura, esistenza e tutto il restante. Quando apre una busta. All'interno della busta c'è una lettera. La lettera lo mette al corrente di avere una figlia, Alice, una bambina speciale dice la lettera, che aggiunge che la madre della bambina, la scrivente, sta per morire di cancro, lasciando la bambina da sola nel mondo. Aggiunge dove trovarla, e lo prega di prendersene cura. Poco dopo essere giunto in incognito nel paese dove la bambina risiede presso una famiglia temporanea, McCash s'imbate nel cadavere di una bambina di poco più piccola di sua figlia, portata dal fiume, con un passamontagna rosso in testa. Caryl Férey pare sia uno dei nomi di punta del noir francese (polar), anche se qui da noi prima di questo libro è stato tradotto solamente Zulu, per la Mondadori (attualmente disponibile nella collana Piccola Biblioteca Mondadori). Ha vinto tutti i premi francesi dedicati alla letteratura noir. Eppure a me non sembra totalmente un noir, questo La gamba sinistra di Joe Strummer, anche se lo è, ma non a tutti gli effetti. Dopo il ritrovamento del cadavere della bambina ovviamente si innesca il meccanismo dell'indagine che andrà a scavare nelle miserie morali e nei vizi della provincia francese, come da copione. C'è poi anche uno spostamento di scena, in Marocco, secondo la lezione di Jean Christophe Grangé. Eppure non ha nulla del noir alla Derek Raymond, nè tantomeno di quello alla Izzo, come erroneamente rivendicato in ultima di copertina. Nonostante il protagonista sia un duro dal cuore tenero, provato (provatissimo!) dalla vita, sommerso dai rimorsi più che dai ricordi e sempre in cammino su quel terreno che divide la vita dalla non vita, nonostante dissemini la sua strada di morti senza darsi troppa pena, forse proprio perchè la distinzione tra morte e vita per lui non ha più un gran significato, nonostante la bontà umana non la s'intravveda neppure da lontano e il paesaggio sia quasi sempre scuro e piovoso, l'impressione che se ne ha è che non sia un noir. Intendo dire un noir per davvero. Il nucleo del male, non lo si sfiora mai. C'è il vizio, c'è la corruzione, c'è la violenza, ma il vero centro nero dell'esistenza pare non essere mai messo a fuoco. Alla fine, la causa della morte della bambina col passamontagna rosso e di tutte quelle che verrano in seguito a cascata si verificherà essere semplicemente grettezza, non però avulsa da un coacervo di sentimenti addirittura positivi seppur distorti.Il vizio e le perversioni di provincia (uguali identiche ai vizi ed alle perversioni delle metropoli), non sono altro che un'occasione, e non hanno nulla della grandezza del male, sono solo passatempi che aiutano a rimanere vivi, a vincere la noia, ad intessere relazioni di potere o ricattatorie. Il male vero, sarebbe a dire il mare di morti che ne consegue, compreso quella della bambina, è una sorta di danno collaterale non voluto e non previsto da nessuno dei protagonisti. Eppure questo libro è una lettura piacevole (e anche in questo non è un noir che, per sua stessa natura, è disturbante), scritto non in maniera eccelsa ma certamente trascinante, con un'ottima scansione delle scene ed un buon ritmo. Per dire, poi, quanto non sia noir, termina in un finale che potrebbe quasi essere una sorta di happy end.
  Un bel giallo, solido anche quando pare non esserlo, capace di trasciare il lettore nell'oscura provincia francese e nelle sue perversioni, seguendo un protagonista che è bidimnesionale al punto giusto per farci da Virgilio nel suo personale inferno.
  La sua qualità, dicevo, non si trova nella qualità della scrittura, buona ma non eccelsa, nè in altro che riesco ad indentificare, però lascia la voglia di correre a comprare Zulu, l'altro libro di Férey tradotto in italiano, quantomeno per cercare di capire dove risieda il quid che permette all'autore di immergerci nel suo mondo, anche se un po' sgangherato, e a non lasciarci andare fino all'ultima riga.







Carel Férey è nato nel 1967. Si è imposto all'attenzione del pubblico con Haka e Utu, due noir ambientati tra i Maori, per i quali ha ricevuto prestigiosi premi, e con Zulu, pubblicato in Italia da Mondadori nella collana Strade Blu.

lunedì 17 ottobre 2011

Dannazione, di Chuck Palahniuk, Mondadori

Chuck Palahniuk è uno dei pochi autori veramente imprenscindibili della letteratura contemporanea nordamericana e, se a volte, soprattutto ultimamente, la sua sovrapproduzione non giova alla qualità finale dell'opera, non si può dire lo stesso di questo libro. E' un libro che, come nella miglior tradizione del bardo psichedelico di Portland, spiazza chi legge e questo è - sempre - segno di rispetto verso il lettore. Ci spiazza perchè è una sorta di oggetto letterario non identificato, che strizza l'occhio più a Swift (non per niente citato nell'opera) che a Dante, e che riesce a mettere insieme richiami cinematografici e assolutamente pop ad una scrittura totalmente letteraria. Non so, forse sta proprio in questo la grandezza di Palahniuk, nel mettere insieme piani, livelli e riferimenti diversi all'interno di prodotti (alti) del tutto narrativi. La storia, è presto detto, è quella di una ragazzina tredicenne, figlia di genitori ricchi, famosi e democratici (ex hippye, ex anarchici, ex punk, ex tutto) che si ritrova ad essere morta, semplicemente, e oltre a questo stato non propriamente invidiabile, ad affrontare la prospettiva di trascorrere l'eternità all'inferno. L'inferno quello sotto il comando tirannico ed assoluto di Satana, esattamente quello che i suoi genitori ex sessantottini le avevano insegnato che non esisteva. Così Madison scopre che c'è vita dopo la morte, che la sua personalità rimane invariata e che, a conti fatti, l'inferno non è quello schifo di cui si dice in giro, nel mondo dei vivi. Ha tredici anni, è vergine (e destinata quindi a rimanerlo in eterno), intelligente (o crede di esserlo), grassa, impacciata e poco sicura di sè. E'  morta per un overdose di marjiuana, per questo crede di essere stata condannata alla dannazione eterna: tra l'altro scopre che ci si danna per molto meno, per aver detto cazzo più di un tot di volte nella vita, per aver suonato troppe volte il clacson in vita o per aver sputata in terra. Cose così. L'inferno, come ci viene raccontato da Madison, è un luogo terribilmente burocratico. Oltre che essere afflitto da un'incuria che dura probabilmente dalla sua fondazione, quantomeno a vedere le condizioni in cui versa. Madison, però, non è una ragazzina come tutte le altre, non fa la schizzinosa rispetto alla poca igiene con la quale deve imparare a convivere, non si abbatte, non si piange addosso per qualche millennio e, soprattutto, si sforza di avere un approccio positivo rispetto alla sua nuova condizione. Conosce e fa amicizia con un adolescente punk dalla cresta azzurra, con un giovane giocatore di footbal, con una ex cheerleader con seni e fianchi da fare invidia ad un'attrice e con un secchione che sa tutto di demoni e cosmologie infere. Troverà un lavoro, laggiù, nell'ade, e avrà modo di raggiungere una certa notorietà. Scoprirà cose su sè stessa che in vita non era riuscita neppure a sospettare, e avrà una visione più chiara della sua morte. Del come e del perchè. Un romanzo di formazione infera, o un esercizio di fantasia sballata e selvaggia, o un esperimento post-post moderno, o una riflessione sul nostro mondo contemporaneo e sul senso della vita, o forse qualche cos'altro ancora che comprende tutte queste letture e ne aggiunge altre. Cosa sia, onestamente, non lo so. Non lo si mai, o quasi mai, coi buoni libri, e questo è un buon libro. Parte in un modo, e vira innumerevoli volte verso lidi ai quali non approda mai. Però non lascia in bocca la sensazione di qualcosa di incocluso. La critica ufficiale pretende che Palahniuk sia il cantore dei nostri tempi malati, della cultura di massa, dei sogni e degli incubi terrificanti che si innestano sulla nostra realtà, ormai troppo espansa per avere limiti e confini ben chiari, e forse è vero. Forse è così. Se questa è la lettura corretta da dare all'opera di Palahniuk, bisogna ammettere che riesce nel suo intento con notevole maestria, con una capacità rara di sondare non tanto le storie quanto i livelli di nevrosi e commistioni culturali e amensie sociali che sottendono le storie stesse. Voglio dire che alla fine dei suoi libri spesso ci si chiede se davvero ci ha raccontato qualcosa o se, piuttosto, non abbia trovato delle scuse per sballottarci in qua e in là su piani sottili della realtà e dell'inconscio collettivo contemporaneo che altrimenti ci sarebbero stati preclusi.




  Il libro si conclude con la parola: CONTINUA, seguita da puntini. Tre puntini...
  Così: Continua...
  Chissà che non ritroveremo Madison in purgatorio e/o in paradiso a parlarci più di noi e della follia che ci circonda che non di sè stessa...

venerdì 7 ottobre 2011

Chi non muore, di Gianluca Morozzi, Guanda editore in Parma

Angie, mamma mia! Il romanzo qui recensito sta tutto in una parola, che poi è pure la protagonista assoluta del romanzo: Angie, vale a dire Angela detta Angie. Così somigliante ad Angelina Jolie, tette a parte, con le sue labbra carnose e il suo essere un po' rocker e un po' snob, e la sua follia dei vent'anni o giù di lì, quella stessa follia che tutti abbiamo avuto a quell'età o, più che altro, tutti abbiamo sognato di avere e che ora, passata abbondantemente la trentina, tutti ci illudiamo di aver avuto. La storia pretenderebbe di essere un giallo, un giallo che poi finirà col tingersi di sfumature paranormali, così come Cicatrici, ma la pretesa è una finzione. Non è un giallo. Nel senso che usa la struttura (seppur in modo molto elastico) del giallo per parlare di altro, non so esattamente di cosa. Non so dire di cosa tratti perchè non so se ci sia un messaggio o un argomento particolare - se c'è non me ne sono accorto o me ne sono scordato - quello che so è che è la storia di Angie, è una sorta di telecamera che entra nella sua vita, dietro i suoi occhi, all'interno del suo cristallino e delle sue sinapsi cerebrali per mostrarci il mondo confuso, sconclusionato, forse pure terribile, ma ancora totalmente aperto ad ogni sviluppo, di una ventenne che vive da sola in una città universitaria, una ventenne che dovrebbe trascorrere le sue giornate all'università ad apprendere e a studiare e che invece pensa alla musica e a diventare una rocker. La musica, non tutta la musica e non una musica in particolare, bensì tutta quella musica che la fa sentire viva e, soprattutto, diversa. Diversa da tutto e da tutti. L'italia banale, massificata, bigotta e videodipendente, sostanzialmente lobotomizzata di questi anni non è neppure sullo sfondo, ma si limita a venir ben rappresentata dalle odiate coinquiline di Angie. Delle idiote, maniacali, bigotte, paranoiche e quant'altro, ma che non servono a nulla se non a ridicolizzare sè stesse. Il centro del romanzo non è neppure il mistero della morte di tre elementi di una band avvenuta anni prima del presente in cui Angie racconta, e non risiede neppure nella storia d'amore tra Angie e Mizar: il centro del racconto è la furia devastante della protagonista che ci racconta in presa diretta cosa fa e cosa pensa, e anche quando"fa" senza pensare, il suo essere a volte perfida e altre superficiale ed altre ancora lievemente romantica. E' la voce della gioventù cosciente di essere tale e che si concede la licenza di guardarsi da fuori e di viversi contemporanemante. Il finale, a mio avviso, lascerà un po' l'amaro in bocca, perchè se era una finzione il giallo ovviamente non può che essere una finzione pure la soluzione del giallo, ma non è questo il punto, perchè il romanzo non lascerà l'amaro in bocca, per nulla. Quello che rimane è la sensazione di essere incappati raramente, o forse mai, in un personaggio così fresco e assoluto, femminile e forte al contempo, nella letteratura italiana contemporanea. E su questo bisogna riconoscere a Morozzi un ulteriore balzo nella sua caratura di scrittore: è riuscito a creare un personaggio nuovo (senza peraltro esserlo realmente) e fornendolo di una voce - questa sì - assolutamente unica e perfettamente azzeccata.
La voce di Angie. Angie. Il sesso di Angie. La sua musica. Il suo mondo scapestrato e futilmente anarchico.
La copertina invece fa schifo.

lunedì 26 settembre 2011

Cicatrici, di Gianluca Morozzi, Guanda editore in Parma

In realtà si tratta di due romanzi in uno. Due microromanzi, diciamo. Due microromanzi lunghi; uno un po' più lungo (o meno corto) dell'altro e, in un certo senso, in netto contrasto tra loro. Mi spiego. C'è una storia terribilmente e tragicamente realistica, la storia di Felice (donna) e Nemo Quegg (uomo), che è una storia d'amore disgraziata e maledetta. Forse. Nel senso che forse è una storia d'amore. Come storia invece è senza dubbio tragica e terribile, non ci piove. Per certi versi ricorda le inquietudini e i misteri e i sottintesi del capolavoro di Ernesto Sabato "Sopra eroi e tombe" e la figura di Felice (donna) pare ritagliata su quella di Alejandra, almeno fino ad un certo punto, poi comunque questo Cicatrici non è certo Sopra eroi e tombe. E qui finisce la similitudine. L'intrecciarsi della loro vicenda riesce ad essere tanto realistica quanto onirica. Lui è un tipografo triste che lavora di notte, ogni notte sale sul suo autobus per andare al lavoro e ogni mattina vi risale per tornare a casa. Lei appare sullo stesso autobus come per magia. Lui è brutto, enorme, sgraziato, chiuso in sè stesso e nella reiterazione sorda dei suoi giorni. Lei, no, lei è dolce, eterea, sottile. E misteriosa. Poi, com'è come non è, si conoscono: lui è già cotto da un pezzo e lei pare ricambiarlo. Fino a qui nulla di male. Poi però arriva l'altro, che è suppergiù l'incarnazione del male. Non vado oltre a svelare la trama, però ci tengo a sottolineare che nel pezzo in cui Felice (donna) ricorda e svela il suo lento (o velocissimo) cadere e degradarsi per amore dell'altro mi pare di leggere una netta volontà di riportare, trasfigurandola, una certa realtà al giorno d'oggi molto ben rappresentata nel nostro paese (e non solo): quella del potente che può e vuole tutto, abietto, che considera la donna un oggetto e che si comporta di conseguenza, che gode delle proprie perversioni e della propria impunità. Chiusa parentesi. Poi c'è l'altro microromanzo lungo (un po' meno lungo del primo), che funge da cornice, e che è una storia di reincarnazioni a rotta di collo, vorticose alla fine, una dietro l'altra, un avvilupparsi di karma che si intrecciano e dipanano alla velocità di un battito di ciglia. All'inizio pare fatichino a coabitare, ed in effetti secondo me è così, non coabitano per nulla, ma alla fine della fiera finiscono per funzionare perchè una racchiude l'altra, e quando la prima si conclude ha senso portare a termine la seconda, che quasi lascia sfumare la storia di Felice (donna) e Nemo Quegg in secondo piano, smorzando i termini tragici, guardandola come da lontano, da una spiaggia fredda e immobile sul limitare del tempo.
  Morozzi scrive bene, non lo si può negare. E' dotato di uno stile freddo e calcolato, però in qualche maniera anche fresco e se, nella prima parte della sua carriera, era messo al servizio di storie sgangherate e divertenti di provincia (la sua provincia), a dar voce a giovani sull'orlo di un allegro nulla, una banda di lievi tardoadolescenti felicemente smarriti nel mondo d'oggi, da Blackout in poi ha utilizzato le virtù del suo scrivere per scavare nel lato oscuro dei suoi personaggi. Ci riesce bene.

 
E' uscito da poco il nuovo libro di Gianluca Morozzi, Chi non muore, sempre per Guanda.
  Qui potete trovare la sua bibliografia, nonchè la biografia.

domenica 4 settembre 2011

La ballata di Mila, Matteo Strukul, Edizioni e/o

Ora, questo dovrebbe essere un romanzo pulp (o sugarpulp, secondo la definizione dell'autore) che si addentra e ci illumina sulla realtà criminal-economica del nostro paese; pare che esattamente per questo motivo sia stato scelto (per inaugurare la collana SabotAge) dal curatore della collana Massimo Carlotto, nonchè nome di punta del noir nostrano. Il romanzo è ambientato in quel NordEst tanto caro a Carlotto, e una delle cose migliori che traspare da questa Ballata di Mila è esattamente "l'amore per" e "la conoscenza del" territorio. Grazie alla cura con cui Strukul ce lo descrive, riusciamo a quasi a vederlo e, per la prima volta dopo diverso tempo, ad immaginarcelo differente da quello che balza agli onori delle cronache come una landa medieval-industriale abitata da orde di razzisti medioborghesi incapaci di parlare un italiano corretto e dediti, di solito, ad accumulare soldi e arricchire la cronaca nera nazionale di casi più o meno turpi. Vien voglia di prendere la macchina e visitarli, certi altopiani e certe zone se non proprio descritte comunque accennate: però non è un libro di viaggio, nè un pamplet turistico della regione Veneto. C'è un cinese, tale Guo, che s'è installato nel NordEst per conto di una triade cinese, la 14K, e c'è un tale Rossano Pagnan che è il boss indigeno che gestisce la malavita locale, entrambi ben inseriti nel contesto sociale e politico della zona. Poi c'è Mila, una ragazza piuttosto bella che, deradlock rossi a parte, ricorda molto da vicino la protagonista di Kill Bill, ed è una macchina da guerra alimentata ad odio e vendetta (a giusta ragione, tra l'altro). Senza voler svelare troppo, Mila si inserisce tra le due gang e le mette una contro l'altra, così spiega la quarta di copertina del libro (bella la copertina di Laurenti). In realtà qui cominciano, a mio avviso, le contraddizioni. Cioè, il romanzo si apre con un ammazzamento dei commercialisti di Pagnan da parte della Triade: dunque, deduco che erano già, le due organizzazioni, in guerra tra loro. Quantomeno quella doveva essere con ogni probabilità la prima mossa che avrebbe scatenato comunque il putiferio. La presenza di Mila sulla scena non è spiegabile. Sapeva già della pianificazione dell'omicidio? E come? Dopodichè Mila si mette nel mezzo e prende parte a degli eventi che, ripeto, si ha la netta sensazione che, a logica, si sarebbero verificati ugualmente ed ineluttabilmente. Scorre una quantità di sangue impressionante, senza peraltro che le forze dell'ordine diano segno di vita, come se in realtà tutto ciò avvenisse in una qualche regione selvaggia ed abbandonata all'anarchia del globo terracqueo. Le contraddizioni non sono concluse: ci sono riprese video in soggettiva che vengono viste scaricate su computer comprese delle immagini di chi le ha girate, ci sono monchi che allungano le mani, e avvimenti che non paiono essere proprio ancorati ad una rigida sequenza causa effetto. Un pregio di Strukul è quello di non voler a tutti i costi copiare il suo mentore, Carlotto, e questa per un esordiente è una virtù da non sottovalutare, inoltre riesce a tratti ad utilizzare uno stile che, senza lanciarsi nei personalismi, riesce ad essere parecchio incisivo e, di tanto in tanto, evocativo. Però non sempre. A volte certe frasi lasciano la sensazione di non essere passate attraverso nessun editing (come la questione del monco che porge le mani) e suonano stonate, come certe scene. L'ultima, ad esempio, che più che una conclusione è un aggancio a quella che sarà sicuramente la prossima puntata. E' un romanzo ingenuo, con diverse imperfezioni, nel quale si possono riconoscere i modelli ed i padri, sia cinematografici che letterari, ed è un romanzo che ha come principale difetto il fatto di essere spacciato per quello che non è. Una volta letto non saprete nulla di più della realtà criminale del NordEst (per quello leggete Carlotto) nè di quella italiana o cinese (leggete Genna). Sicuramente è un romanzo che ha la sua forza più sul versante pulp, nonostante tutti i limiti e le ingenuità di cui sopra, ed è un romanzo che si fa leggere con piacere. Solo che, leggendolo, a volte ti trovi ad incazzarti perchè non capisci come certi errori siano sfuggiti prima della pubblicazione. Un po' come un buon film di genere, a basso budget, in cui di tanto in tanto si vede il microfono che ballonzola sul lato superiore dell'inquadratura e che, invece che essere venduto per quello che è, magari un buon noir casereccio, viene spacciato per nouvelle vague italiana. In questo senso trovo totalmente controproducente la tirata di Tim Willocks sul benvenuto a Strukul nella cerchia dei romanzieri folli e via discorrendo, così come gli accostamenti non tanto a Tarantino o Rodriguez (la differenza di medium può mascherare e giustificare certe differenze) quanto a Joe Lansadale (su Victor Gischler non mi sbilancio perchè non l'ho mai letto). Non è Lansdale, nella maniera più assoluta, non adesso, e questo va detto, nel bene e nel male. E' un'altra cosa, Strukul, e sicuramente in futuro sarà qualcosa forse anche di notevole nel suo genere, ma per ora manca la mano sicura (a volte c'è, ma non sempre, e si sente), l'esperienza, e un buon editing. Il punto forte - uno dei punti forti assieme a certe frasi come lampi ed alla descrizione del territorio - è la costruzione del personaggio di Mila. Il suo passato e il suo presente. Il suo look e il suo modo di muoversi e di combattere la rendono una eroina che rimane nella memoria, e se anche i suoi modelli sono piuttosto chiari e facili da rintracciare (Kill Bill, Nikita, Alias, Lisbeth Salander) ciò non toglie nulla alla resa del personaggio che, pur non volendo essere un esempio di neorealismo, rimane un immagine che continua a muoversi nel subconscio del lettore ancora tempo dopo averlo letto. Nonostante tutti i limiti e le contraddizioni sottolineate (comunque comprensibili per un esordiente) ed il fastidio per i paragoni roboanti e - per ora - fuori luogo, rimane un romanzo divertente che si fa leggere volentieri e che lascia presagire un autore interessante per il futuro.



N.B: è interessante notare come certi personaggi borderline femminli, come ad esempio quello di Mila, abbiano avuto modo di venire alla luce solo dopo l'esplosione sulla scena mondiale della Lisbeth Salander di Stieg Larsson.

giovedì 25 agosto 2011

Le legge del più forte, Joaquìn Guerrero Casasola. La nuova Frontiera edizioni

Gil Baleares è uno spiantato, e fin qui niente di nuovo sotto il sole. Gil Baleares, per guadagnarsi la pagnotta, lavora come detective privato. Prima era in polizia, poi dopo no. Ne è uscito, e capiremo il perchè con l'avanzare del romanzo, ma anche qui nulla di trascendentale. Viene ingaggiato per ritrovare la figlia di un industriale, forse ricco o forse no, comunque non esageratamente ricco. O forse solo terribilmente spilorcio. Chiede, per svolgere l'incarico, una cifra tutto sommato irrisoria. In fondo, pensiamo, è uno onesto. Forse, ci domandiamo, è per questo che è uscito dalla polizia, perchè è uno onesto. Ma forse non si tratta di onestà. E' un uomo come tutti, o come tanti, e il calcolo sul suo onorario l'ha fatto sulla prima rata di una macchina nuova che si vuole comprare a tutti i costi. Una Nissan Tsuru (?) che di tanto in tanto si va gustare direttamente dal concessionario. Se la guarda, ci entra dentro, si siede, chiude gli occhi e si immagina alla guida. E' un povero mortale come tutti noi dunque. Poco alla volta ci rendiamo conto che è anche peggio di noialtri. E' la teoria del maelstromm: il vortice lo lambisce, poi lo cattura, lui non oppone una gran resistenza e comunque alla fine cede, e il vortice lo trascina in basso, sempre più velocemente, sempre più in fondo. Il ruolo del maelstromm lo svolge il rapimento, chi ci gira intorno, la polizia corrotta, gli ex colleghi, gli amici, sempre che quelli che ha si possano chiamare tali, la città, i taxisti, la coppia che lo ha ingaggiato, lui privo di carattere e in balia di una moglie folle e aggressiva, lo svolge, il ruolo del maelstromm, la violenza e la follia che permea ogni cosa, la sporcizia, il giocare due partite su due tavoli diversi, la mancanza di qualsiasi codice etico. L'unico elemento che rimane invariato è la malattia del padre di Gil. Il vero fulcro del romanzo è l'Alzheimer. La pardita di memoria temporanea, il ritorno improvviso alla normalità, il cagarsi addosso, l'orinare nell'acquario dei pesci, il perdersi nella città e il perdersi in casa. La perdità di tabù. Il passato che si ri ripropone sotto forme diverse e terribili. La nostalgia del sesso. E poi c'è chi viene abitato e posseduto dall'Alzheimer, il padre di Gil, che non è un simpatico vecchietto un po' rintronato. E' un ex poliziotto, pare anche uno bravo, all'epoca. Un figlio di puttana, ma con un codice. L'ha scampata durante tutta la carriera, è sopravissuto, ma non sfugge alla malattia, alla decadenza del corpo che gli muore addosso, che si secca addosso, della mente che va in brandelli, ma non sempre. Non del tutto. Poi c'è tutta la vicenda del rapimento, che ovviamente si complica, di tutti coloro che gli girano attorno, dell'industria che si compatta attorno all'azione di privare un essere umano della propria libertà. Chi sceglie il bersaglio, che fa i controlli, chi segue, chi pianifica, chi guida, chi ci investe i soldi, chi fa da carceriere, e chi sta sopra a tutto questo. E' il male, grigio, banale e volgare, come la malattia, stupido, solido e stolido, senza senso. E' un modo come un altro per stare al mondo. Uno dei modi migliori per stare al mondo a Città del Messico. Si spinge per stare in piedi e si rimane in piedi fino a che non si viene spinti. Si lavora, si uccide, si tradisce, ci si affatica, a volte per una donna più giovane, altre anche solo per una macchina nuova (una macchina da poco, mica una Ferrari), ma non si può fare altro perchè l'unico modo di rimanere vivi è muoversi. Chi si ferma muore o, per meglio dire: chi si ferma è morto. Anche l'Alzheimer può essere un modo per rimanere vivi.


 

mercoledì 13 luglio 2011

Dov'è finita Dulce Veiga?, di Caio Fernando Abreu. La nuova frontiera

Chi sia Dulce Veiga e che fine abbia fatto lo si scopre solo dopo un certo numero di pagine (chi sia; che fine abbia fatto, se Dio vuole, lo scopriremo solo alla fine); all'inizio facciamo conoscenza con il protagonista. Non è che ti viene in testa che non avresti potuto assolutamente fare a meno di conoscerlo, che avresti perso chissà cosa nella tua vita. Mi spiego: a parte il fatto che di mestiere fa il giornalista, e pure per il rotto della cuffia, diciamo, in un giornale di quartordine o che quantomeno il protagonista ritiene tale, l'io narrante non è molto diverso dai protagonisti di mille altri romanzi del novecento. Non solo è un'antieroe ma, da com'è di moda da un po' di tempo a questa parte, è pure sfigato. Di più. E' abitato da una sfiga atavica, che lo circonfonde, lo vive e lo fa vivere e lui, il nostro protagonista, si lascia per lo più vivere e portar per mano dalla sua compagna Sfortuna. Dovrebbe essere al settimo cielo per aver trovato un posto da imbrattacarte, e forse lo è pure, vista la sua precedente condizione di disoccupato senza una lira, ma a suo modo, cioè in realtà la sua felicità viene costantemente bloccata dalla consapevolezza di qualcos'altro. Qualcosa di grigio, tedioso, assurdo, pesante e nauseabondo che lo invischia come pece. Qualcos'altro, che forse è la vita stessa, forse è la sua vita solamente o forse è il Brasile, forse San Paolo. Forse altro ancora. Fin qui, il romanzo non decolla e non rispetta le attese di un autore che viene considerato - in Brasile, in Sud America - uno dei più importanti dell'ultimo scorcio del secolo scorso. Barcolla tra il suo alloggio squallido abitato da insetti vari e la redazione del suo nuovo lavoro. Sappiamo che è stato lasciato da una donna, anche lei partita in cerca di qualcosa. Qualcosa di diverso, qualcosa che non sia San Paolo. E intuiamo che ha perso i contatti anche con un uomo, svanito nel nulla da un momento all'altro. Il protagonista, dunque, è una sorta di copia incolla di mille altri, carico di clichè (anche se dal nostro punto di vista di europei lo percepiamo in modo opposto, forse perchè abbiamo nella testa un'immagine del sud america e dei sud americani piuttosto datata e stereotipata). Il particolare che gli rende una certa tridimensionalità rispetto al clichè è la sua omosessualità, che scopriamo poco alla volta ma che intuiamo da subito.
  Fin qui, nessuna traccia di Dulce Veiga.
  Cercando disperatamente di mettere insieme un articolo ed un'intervista ad una band di giovani ragazze punk, si ritrova ad incappare in una cover di un vecchio successo di Dulce Veiga cantata dalle Vagine Dentate (questo il nome del gruppo punk femminista). Tornerà col ricordo ad un'episodio sepolto nel passato in cui lui e Dulce Veiga si trovavano nella stessa stanza. Si domanderà che fine ha fatto Dulce Veiga, scomparsa al culmine del successo in cerca (forse) di qualcosa, anche lei, di qualcos'altro, come amava ripetere spesso. Scoprirà un legame tra le Vagine Dentate e Dulce Veiga. Deciderà (o più che altro qualcuno deciderà per lui) di mettersi in cerca della cantante. Da qui in poi la storia decolla. Diventa una sorta di detection sbilenca che in un certo senso può ricordare certi film di Almodovar: per i personaggi assurdi, gli incastri improbabili, le situazioni sospese tra il tragico ed il grottesco. A questo punto la storia non ti lascia più scampo e ti costringe a seguirla fino in fondo. Ed è da qui in poi che anche il suo stile acquista un senso compiuto, quando nelle prime pagine dava l'impressione di qualcosa di stonato e, a volte, di pretenzioso. In realtà alla fine ti lascia qualcosa dentro. Che cosa? Innanzitutto la sensazione che quel qualcos'altro che tutti cercano nel romanzo sia in realtà il vero protagonista e che in fondo sia qualcosa che tutti noi cerchiamo, consapevoli o meno. Poi, che quel qualcos'altro è qualcosa di inafferrabile per molti, ma per altri invece diventa realtà già in questa dimensione. Infine ti lascia la voglia di leggere altro di Abreu. Qualcos'altro. Forse per tentare di capire. Capire quale sia il centro della sua opera e del suo mondo. Per capire se davvero sia un grande autore o quantomeno uno scrittore di culto. Per capire se siamo stati fregati, come il protagonista del romanzo, oppure no. Qualsiasi sia la risposta, rimane un libro da leggere.


  In più, in italiano, è stato pubblicato un altro suo libro, per la Quarup editore, I draghi non conoscono il paradiso.

domenica 3 luglio 2011

I minuti neri, di Martin Solares, edizioni Il Saggiatore

In questa storia c'è un presente con cui si apre e si chiude la narrazione, e questo presente ha un suo protagonista (Ramòn Cabrera, detto el Macetòn) e diversi altri personaggi, poi c'è un passato che è il vero centro del racconto, e questo passato ha un suo protagonista (Vicente Rangel Gonzàlez) il quale a sua volta ha un coprotagonista (Jorge Romero, detto el Ciego), e diversi altri personaggi. Ogni personaggio, più o meno, ha un soprannome e l'autore di volta in volta decide se usare il nome o il soprannome. Alcuni compaiono sia nella linea del presente che in quella del passato. La storia comincia con l'omicidio di un giornalista, Bernardo Blanco, tornato nella immaginaria città di Paracuan dagli Stati Uniti, e infilatosi da subito in un groviglio di serpi in cerca della verità su fatti che ebbero inizio nel 1978. La vera protagonista del libro è la storia di questi fatti, che viene portata alla luce, poco alla volta e tra mille difficoltà, dal Macetòn, il quale indaga sulla morte di Blanco, il giornalista. In poco tempo si rende conto che i due fatti sono strettamente legati e per comprendere l'uno bisogna inevitabilmente ricostruire l'altro, cosa tutt'altro che facile dal momento che i fatti del 1978 rappresentano il peccato originale su cui si è costruita, attraverso menzogne, soprusi e corruzione, il vero gotha della città, e non solo. Nel 1978 vennero trovate morte quattro bambine, quattro cadaveri mutilati che vennero addebitati ad un serial killer senza volto ribattezzato dalla stampa Lo Sciacallo. Nel corso del libro scopriremo la vera identità dello Sciacallo, ma sarà relativamente poco importante. Avrà un nome ed un cognome, ma di lui sapremo poco o niente, se non che " Lo portarono dentro alle tre, e alle tre e cinque lo liberarono. ". Il vero centro del narrare, il vortice scuro che tutto ingoia, è la rappresentazione della corruzione in Messico (che in questo caso è perfetto come sfondo credibile, ma potrebbe trattarsi di qualsiasi altra nazione: pensiamo ai mille misteri italini, alle stragi di stato, ecc.), gli allacci coi politici, coi narcotrafficanti, coi criminali, la rete di coperture di cui si trova a fruire lo Sciacallo, quasi a sua insaputa, e il mare di menzogne e scese a patti squallidi che si mettono in moto da subito e finiscono per costituire una sovrastruttura (un Sistema) che diventa impensabile scalfire. Se si sottrae un pezzo, seppur infinitesimale, di menzogna al castello di bugie, tutto quanto l'edificio sarà destinato al crollo, per questo il sistema dovrà coprire, insabbiare, corrompere, torturare e uccidere pur di salvaguardare sè stesso. Blanco, il giornalista Bernardo Blanco, scoprirà il Macetòn, stava raccogliendo materiale per scrivere un libro su quei fatti, e per questo muore. Il vero protagonista del romanzo è il meccanismo che sottende il potere, è il potere stesso e le sue forme di autodifesa, il crimine come fatto insito al sistema. Di più, come azione fondante del sistema. C'è tutto il Messico (e non solo) in questo libro: ci sono i femminicidi di Ciudad Juarez, i narcotrafficanti onnipotenti, c'è la polizia che si limita a divenire un tramite tra i narcos, i politici e la popolazione. C'è la corruzione politica, che parte dall'ambito locale e giunge fino a quello nazionale. Ci sono però anche tre generazione di poliziotti onesti - non perfetti, non immuni da vizi o colpe, ma onesti -: Miguel Rivera Gonzalez, lo zio di Vicente Rangel Gonzalez, Vicente rangel appunto e infine Ramòn Cabrera, el Macetòn. E poi c'è la stampa che, nonostante tutto, rimane l'unico contropotere a potersi permettere di svolgere il suo ruolo. Non per niente, forse, il mondo ha potuto venire a conoscenza della strage di donne di Ciudad Juarez grazie al libro di un giornalista, Sergio Gonzalez Rodriguez (Ossa nel deserto, Adelphi) e non per niente lo stesso autore, Martin Solares, è giornalista. Abbiamo un noir ben dosato, ben scritto (la scrittura è da autore tout court non certo del semplice giornalista), ben ambientato, teso senza essere mai eccessivo, con qualche sforamento nel grottesco se non proprio nell'assurdo (vedi il capitolo " Testimonianza di Rodrigo Montoya, agente sotto copertura"). Un libro che trascina nella lettura e che, alla fine, si vorrebbe non aver mai letto, ma che in qualche sua componente continua a galleggiare nel subosconscio del lettore.
Non illudiamoci che parli solo del Messico.

venerdì 27 maggio 2011

Funes, o della memoria (Funes el memorioso, da Ficciones), di Jorge Luis Borges


  Il racconto fa parte del libro Ficciones (Finzioni), edito nel 1944, della seconda parte, Artificios. La storia è piuttosto semplice e per lo più lineare. Jorge Luis Borges nella premessa a questa seconda parte del libro sostiene che il racconto Funes el memorioso “ è una lunga metafora dell’insonnia”. Non solo. Forse, a prescindere dalle reali intenzioni del suo autore, il racconto travalica il suo significato primigenio e sfocia in altro, in qualcosa di più profondo. La storia è semplice e lineare. Ireneo Funes, legato al narratore da una conoscenza occasionale e quasi del tutto superficiale, in giovane età rimane paralizzato dopo un incidente a cavallo. Da quel momento in avanti la sua memoria diviene prodigiosa (e dunque mostruosa) e la sua vita si biforca: da una parte quella psichica ossessionata e condannata dalle funzioni sproporzionate che ha raggiunto la sua memoria, e dall’altra l’immobilità fisica che lo vede costretto a vivere tutti i suoi giorni in una stanza e, al più, verso sera, a guardare una minima porzione di mondo dalla finestra. La vista che Ireneo Funes gode dalla finestra però non è quella potenzialmente infinita di Leopardi bensì una visione realmente infinita perché ogni oggetto, ogni colore, ogni sfumatura, ogni alito di vento vengono percepiti dal protagonista in maniera lancinante e perfetta, totale, e, peggio, ogni particolare registrato rimanda la mente di Ireneo ad altri ricordi memorizzati che a loro volta richiamano altri ricordi, e così via in maniera esponenziale. C’è da notare che già all’inizio, durante il primo incontro fugace del narratore con Ireneo Funes, questi era conosciuto in paese per una sua dote particolare, di nuovo in qualche maniera mostruosa, la capacità di sapere sempre l’ora esatta, in qualsiasi posto si trovasse, senza esitazione. La sua stessa condizione si indovina essere quella di un personaggio singolare nella piccola comunità. E d’altronde il periodo storico, fine 1800, ci consegna un mondo ancora rurale ma già pronto a lanciarsi nel nuovo secolo, che sarà il secolo dell’industria e delle invenzioni, dei meccanismi, delle grandi esposizioni commerciali e scientifiche, dunque un mondo sospeso tra due visioni della vita, una (al tramonto) ancora semplice e in qualche modo magica e una seconda (agli albori) pronta ad ubriacarsi di tecnologia al punto tale da farne la propria religione e la propria forma accettabile di magia. La prima parte del racconto serve, classicamente, a dare una quadro al racconto stesso. Il narratore garantisce sulla verità di ciò che andrà narrando, definisce il periodo temporale (1884-1887), la zona geografica (Fray Bentos), il tipo di rapporto che lo ha legato al protagonista, il numero di volte in cui lo ha incontrato (tre) e ci specifica anche che la sua testimonianza sarà imparziale e, si intuisce, andrà a far parte di un qualche compendio insieme ad altre testimonianze sulla figura di Ireneo Funes el memorioso, che dunque – immaginiamo - deve aver raggiunto una fama che ha travalicato i confini della cittadina dove si svolgono i fatti, anche se non sappiamo la natura di questa fama, se sia considerato una sorta di freak da circo o un caso medico o un personaggio popolare e folclorico. Questo primo approccio, oltre a fornire al lettore i primi dati per circoscrivere un periodo, un luogo e dunque un’atmosfera, serve a stringere col lettore il cosiddetto patto di credulità. E’ l’io narrante stesso che ha vissuto ciò che racconta, dunque va creduto. La parte centrale ci propone le circostanze del primo incontro, casuale e fugace (nel “giorno sette febbraio dell’anno ottantaquattro”), dove intravvediamo Ireneo poco più (o poco meno) che bambino che corre e, senza interrompere la sua corsa risponde alla domanda del cugino del narratore che gli chiede che ore sono. La risposta, << Mancano quattro minuti alle otto >>, fornita quasi come un riflesso condizionato, senza la mediazione di un pensiero razionale ci fornisce le prime indicazioni di una forma di diversità che in qualche modo affligge il ragazzo, anche se ancora non sappiamo se si tratti di virtù o di patologia. La terza parte ci informa dell’incidente occorso al protagonista, della sua infermità e del conseguente dono (o condanna) che l’incidente ha portato come sua conseguenza. Non è importante indagare la causa medica, né se questo potenziamento abnorme della memoria sia verosimile o meno nella realtà al di fuori della pagina scritta, ciò che importa sono le sue conseguenze. Il narratore, e dunque testimone oculare della vicenda, si trova a Fray Bentos, siamo nel 1887, ha con sé una serie di testi in latino, e un dizionario, col quale si aiuta. Venutolo a sapere Ireneo chiede di poter fruire per qualche giorno di qualche testo latino e del dizionario. La richiesta è singolare, e così pare al narratore, che gli fa comunque avere il Gradus ad Parnassum di Quicherat e la Naturalis Historia di Plinio. Dopo pochi giorni il narratore riceve un telegramma poco rassicurante sulle condizioni di salute del padre e, prima di intraprendere il viaggio di ritorno, si reca alla casa di Ireneo per tornare in possesso dei suoi libri. Da qui in avanti Borges posiziona il vero nucleo filosofico del racconto, il reale motivo del suo narrare. L’io narrante entra nella stanza di Ireneo, ma la stanza è buia, e può solo sentire una voce che parla correntemente in latino. Per tutta la durata della sua conversazione col protagonista non avrà modo di distinguerne i lineamenti, solo col sopraggiungere delle prime luci della mattina vedrà il volto del suo interlocutore. Anche in questo caso il tema della cecità, seppur temporanea e causata non da malattia ma da cause esterne, è importante per Borges. E’ addirittura essenziale perché rappresenta il modo (il medium) con cui Borges percepisce il mondo. Il mondo di Borges infatti è chiaroscuro, non per forza cupo, ma eternamente circonfuso di ombre. Ma alle ombre ed alla difficoltà di mettere a fuoco del narratore si contrappone la lucidità folle di Ireneo che, scopriamo, è letteralmente condannato a ricordare tutto. Nulla sfugge alla sua capacità mnemonica, neppure il più piccolo particolare, ed egli è sprovvisto di una capacità selettiva che gli permetta di isolare i particolari essenziali da quelli importanti dagli aspetti secondari da quelli irrilevanti. Ciò che fa del suo potenziale dono una condanna è esattamente questo aspetto: da una parte l’obbligo a ricordare ogni cosa, e dall’altra l’impossibilità di posizionare gli infiniti particolari registrati lungo una scala di priorità. E infatti Ireneo racconta e spiega i suoi progetti assurdi (e sostanzialmente dementi) di ridenominazione dei numeri secondo un criterio che può essere valido solo per lui, perché basato su nessun tipo di logica ma solo su un gioco mnemonico. Anche i suoi piani di archiviazione dei suoi ricordi sono folli e irrealizzabili perché lo costringerebbero a vivere tutta la sua esistenza in quello sforzo ben sapendo che non potrebbe portare a termine neppure la sistematizzazione dei ricordi della sua infanzia. Sono due progetti che lo stesso narratore definisce folli, ma nei quali riesce ad indovinare “una certa balbuziente grandezza”. A questo punto il racconto è terminato. Torniamo ad essere edotti su altri - pochi - aspetti della vita di Ireneo Funes, tipo la sua età all’epoca dei fatti, cioè 19 anni, e la causa della sua morte, nel 1889, una congestione polmonare.
  Ancora una volta Borges torna a parlarci, all’interno di una struttura narrativa semplice e tradizionale, quasi banale, di temi assoluti, come l’infinito. La memoria di Ireneo infatti non è altro che una delle incarnazioni possibili dell’infinito e dell’impossibilità dell’uomo non solo di gestirlo, ma addirittura di capirlo. Funes pare infatti essere in completa balìa della sua menomazione e, per buona parte, neppure capace di comprenderla fino in fondo. Ne intuisce i limiti solo quando la misura con la limitatezza della sua esistenza. Sa che morirà prima di aver terminato di ricordare ogni aspetto della sua infanzia. Eppure questo non lo porta a ragionare sulla natura della morte, e dunque sul senso della vita, bensì gli pone problemi da ragioniere su quanti ricordi memorizzare e su come sistemarli. Il problema non è, per lui, il significato quanto piuttosto la quantità. Ma la quantità pone gli stessi limiti del significato, perché non si lascia cogliere, si moltiplica in continuazione in un gioco di specchi che replicano ogni particolare all’infinito esattamente così come ogni ricordo crea una catena di ricordi che ne crea a sua volta un’altra, e così all’infinito. Più che non di fronte al dramma del non poter non ricordare ci troviamo faccia a faccia col dramma dell’inutilità del ricordo perché esso stesso soverchia il significato e lo annulla nella ripetizione infinita di immagini e sensazioni inutilizzabili.   

Per leggere il testo in spagnolo, cliccare qui.

N.B.:  Chi volesse approfondire il tema della memoria (connesso alla tecnologia ed al concetto d'infinito) può dare un'occhiata qui, un interessante lavoro didattico del blog Centro di Gravità Permanente, post in cui viene utilizzato l'articolo che avete appena letto.

N.B.: Vi rimando al link del sito Artonweb che ci ha fatto l'onore di liinkarci a fondo di un interessante articolo di Vilma Torselli a titolo " Spaesaggi del terzo millennio ": l'articolo lo trovate qui

Morte di Ulises, di Roberto Bolano (da El secreto del mal)

  Belano, il nostro caro Arturo Belano, torna a Città del Messico. Sono passati più di venti anni dall'ultima volta in cui è stato là. L'aereo sorvola il DF (Distretto Federale) e Belano si sveglia di colpo. La sensazione di malessere che lo ha accompagnato durante tutto il viaggio si fa più acuta. Nell'aeroporto del DF deve prendere una coincidenza per Guadalajara, per la Fiera del Libro, alla quale è stato invitato. Belano ora è un autore di un certo prestigio e normalmente lo invitano in diversi posti, anche se lui non viaggia molto. Questo è il primo viaggio in Messico in più di vent'anni. L'anno passato lo invitarono due volte e all'ultimo momento decise di non presenziare. L'anno ancora prima lo invitarono quattro volte e all'ultimo momento decise di non presenziare. Tre anni fa lo invitarono non ricordo più quante volte e all'ultimo momento decise di non presenziare. Ora, tuttavia, si trova in Messico, nell'aeroporto del DF, e cammina tra la gente, perfetti sconosciuti, che si dirigono alla zona di transito per prendere l'aereo che lo porterà a Guadalajara. Il corridoio è un labirinto cristalizzato. Belano è l'ultimo della fila. I suoi passi si fanno via via più lenti, più dubbiosi. In una sala d'aspetto scorge un giovane scrittore argentino che va anche lui a Guadalajara. Immediatamente Belano si rifugia dietro una colonna. L'argentino sta leggendo un periodico, probabilmente le pagine culturali, nelle quali si parla solo della Fiera del Libro, e dopo qualche istante, come se si sapesse osservato, solleva gli occhi e guarda in tutte le direzioni, ma non vede Belano e torna alle pagine del giornale. Un attimo dopo un donna molto bella si avvicina all'argentino e lo bacia da dietro. Belano la conosce. E' la moglie dell'argentino, una messicana nata a Guadalajara. Entrambi, l'argentino e la messicana, vivono insieme a Barcellona e Belano è loro amico. La messicana e l'argentino si scambiano qualche parola. In un certo qual modo tutti e due si sentono osservati. Belano cerca di leggergli le labbra, ma non gli risulta possibile intendere niente. Nascosto dietro la colonna, aspetta fino a che non gli danno le spalle per uscire dal suo nascondiglio. Quando alla fine può tornare al corridoio la coda che si dirigeva a prendere la coincidenza per Guadalajara è scomparsa e Belano scopre, con una crescente sensazione di sollievo, che non gli interessa viaggiare fino a Guadalajara nè partecipare alla Fiera del Libro, quanto piuttosto fermarsi nel DF. E così fa. Si dirige all'uscita. Gli controllano il passaporto e poco dopo è fuori, cercando un taxi.
  Un'altra volta in Messico, pensa.
  Il taxista lo guarda come se lo conoscesse da sempre. Belano ha sentito storie sui i tassisti del DF e sulle rapine nei dintorni dell'aeroporto. Ma tutte queste storie ora svaniscono. Dove vogliamo andare, giovane? dice il taxista, che è più giovane di lui. Belano gli dà l'ultimo indirizzo conosciuto di Ulises Lima. Partiamo, dice il taxista, e accelera e l'auto si addentra nella città. Belano chiude gli occhi, come quando viveva lì e chiudeva gli occhi, ma adesso è talmente stanco che li riapre quasi subito e la città, la sua vecchia città dell'adolescenza, si mostra gratuitamente per lui. Non è cambiato niente, pensa, anche se sa che tutto è cambiato.
  La mattina è una mattina da camposanto. Il cielo è di coloro giallo terroso. Le nuvole, che si muovono lentamente da sud a nord, sembrano cimiteri persi che a tratti si separano, permettendogli di vedere frammenti di cielo grigio, e a tratti si fondono con uno stridìo di terra secca che nessuno, neppure lui, sente, e che fa sì che gli faccia male la testa, come quando era adolescente e viveva nella colonia Lindavista o nella colonia Guadalupe-Tepeyac.
  La gente che cammina per le vie, tuttavia, è la stessa, magari più giovane, probabilmente non erano ancora nati quando lui se ne andò per l'ultima volta da lì, ma in fondo sono le stesse facce che vide nel 1968, nel 1974, nel 1976. Il tassista cerca di intavolare una conversazione, ma Belano non ha voglia di parlare. Quando alla fine può chiudere gli occhi vede solo il suo taxi che si muove per una strada piena di macchine, a tutta velocità, mentre gli altri taxi vengono assaliti e gli occupanti muoiono con espressioni di orrore. Gesti e parole che gli sono vagamente famigliari. La paura. Dopo non vede più niente e cade nel sonno come una pietra nel fondo di un pozzo.
  Siamo arrivati, dice il taxista.
  Belano guarda dalla finestra. Si trovano nella strada dove viveva Ulises Lima. Paga e scende. E' la sua prima visita in Messico?, gli chiede il taxista. No, dice, tempo fa ho vissuto qui. E' messicano?, dice il taxista mentre gli porge il resto. Più o meno, dice Belano.
  Poi rimane solo nella via a contemplare la facciata dell'edificio.
  Belano porta i capelli corti. Una calvizie rotonda che gli disegna una coroncina. Non è più il giovane dai capelli lunghi che un tempo percorse queste strade. Ora si veste con una giacca sportiva nera e pantaloni grigi e camicia bianca e usa scarpe Martinelli. E' venuto in Messico invitato ad un congresso di scrittori ispanoamericani. Al congresso partecipano, come minimo, due suoi amici. I suoi libri si leggono (anche se non molto) in Spagna e in Latinoamerica e sono tradotti in varie lingue. Che faccio qui?, pensa.
  Cammina fino al portone dell'edificio. Estrae la sua agenda con gli indirizzi. Chiama al piano dove visse Ulises Lima. Tre scampanellate lunghe. Non gli risponde nessuno. Chiama ad un altro campanello. Una voce di uomo grida Chi è? Un amico di Ulises Lima, dice Belano sentendosi ogni momento più ridicolo. Con uno scricchiolio elettrico la porta si apre e Belano comincia a salire le scale fino al terzo piano. Quando raggiunge il pianerottolo sta sudando per lo sforzo. Ci sono tre porte e un corridoio lungo e mal illuminato. Qui visse Ulises i suoi ultimi giorni, pensa, ma quando suona il campanello ha l'assurda speranza di sentire dall'altra parte i passi del suo amico che si avvicina e poi vedere il suo volto sorridente affacciarsi alla porta semiaperta.
  Nessuno risponde alla sua chiamata.
  Belano torna a scendere le scale. Vicino, nella stessa colonia Cuauhtèmoc, si imbatte in un hotel. Per molto tempo rimane seduto sul letto, guardando la televisione messicana e senza pensare a niente. Ormai non riconosce più nessun programma, ma in qualche modo i vecchi programmi filtrano in quelli nuovi e così Belano vede sullo schermo la faccia del Loco Valdes o crede di sentire la sua voce. Più tardi, mentre cambia canale, s'imbatte nel film Tin-Tan e lo lascia fino alla fine. Tin Tan era il fratello maggiore del Loco Valdes. Tin Tan era già morto quando lui era andato a vivere in Messico. Probabilmente anche il Loco Valdes era ormai morto.
  Quando il film termina Belano si mette sotto la doccia e poi, senza neppure asciugarsi, telefona ad un amico. In casa non c'è nessuno. Solo la segreteria telefonica, ma Belano preferisce non lasciar alcun messaggio.
  Stacca. Si veste. Si avvicina alla finestra e contempla la via Rìo Pànuco. Non vede gente nè auto nè alberi, solo la pavimentazione grigia e una calma che ha qualcosa di atavico. Poi appaiono un bambino e una ragazza, probabilmente la sua sorella maggiore o sua madre, che camminano sulla via di fronte. Belano chiude gli occhi. Non ha fame, non ha sonno, non ha voglia di uscire. Così che torna a sedersi sul letto e continua a vedere la televisione mentre fuma una sigaretta dietro l'altra, fino a che non gli finisce il pacchetto. Allora s'infila la sua giacca nera ed esce per la strada.
  In maniera inevitabile, come si canta una canzone di moda, torna alla casa di Ulises Lima.
  Comincia ad imporsi il sole nel Df quando Belano ottiene, dopo vari tentativi infruttuosi, che un vicino gli apra il portone. Sto diventrando matto, pensa mentre sale le scale di due in due. L'altitutdine non mi impressiona. Non mangiare non mi impressiona. Trovarmi solo nel DF non mi impressiona. Durante alcuni secondi interminabili e, a sua modo, felici, rimane accanto alla porta di Ulises senza chiamare. Suona il campanello tre volte. Quando è sul punto di girare i tacchi, rassegnato a lasciare l'edificio (anche se non per sempre, lo sa), la porta di lato si apre e una testa senza capelli, enorme, di color ramato ma sulla quale si possono anche indovinare alcuni fulmini rossi, come se fosse stato fino a quel momento a dipingere una parete o un cielo liscio, si fa avanti e gli chiede chi cerca.
  Belano, al principio, non sa che rispondere. Non serve a nulla dire che cerca Ulises Lima. Sul momento non gli viene voglia di mentire. Così che se ne resta calmo e osserva il suo interlocutore: la testa appartiene a un giovane, non deve avere più di venticinque anni e dal modo in cui lo guarda deduce che è accecato o che vive in un perenne stato di accecamento. Quest'appartamento è vuoto, dice il giovane. Si, lo so, dice Belano. Allora perchè suoni, bue? dice il giovane. Belano lo guarda negli occhi e non gli risponde. La porta si apre del tutto e il giovane senza capelli esce nel corridoio. E' grasso ed è vestito solo con dei blujeans molto larghi, tenuti su da una vecchia cintura. La fibia è grande, metallica, anche se la pancia del giovane in parte la nasconde. Vuole picchiarmi?, pensa Belano. In un istante i due si studiano. Il nostro Arturo Belano, cari lettori, ha quarantasei anni e sta male, come tutti sapete o dovreste sapere, al fegato, al pacreas e anche al colon, ma sa ancora boxare e soppesa con lo sguardo la figura voluminosa che ha di fronte. Quando visse in Messico si picchiò diverse volte e non perse mai, cosa che ora sembra incredibile. Scazzottate alla scuola superiore e risse da taverna. Così che ora guarda il giovane grasso e calcola in che momento caricherà e in che momento colpirlo e dove. Però il grassone rimane a fissarlo e poi guarda all'interno del suo appartamento e allora appare un altro giovane, questo vestito con una felpa marron con una foto stampata di tre tipi in atteggiamento di sfida, in piedi nel mezzo di una strada piena d'immondizia, con una legenda in lettere rosse nella parte superiore: Los Amos del Barrio (I padroni del quartiere).
  Il disegno, per un attimo, suscita tutta l'attenzione di Belano. Quei tre tipi ben più che patetici sulla maglia gli risultano famigliari. O forse no. Forse è la strada che gli risulta famigliare. Molti anni fa sono stato lì, pensa, molti anni fa sono passato da lì, senza fretta, guardando tutto, inutilmente.
  Quello con la maglia, che è grasso quasi come il primo, gli fa una domanda che gli suona come acqua in ebolizione e che non capisce. Non è, tuttavia, di questo ne è sicuro, una domanda agressiva. Cosa? dice Belano. Sei un fan dei Los Amos del Barrio, bue?, ripete il grassone con la maglia.
  Belano sorride. No, io non sono di qui, dice.
  Allora qualcuno spinge il secondo grassone e appare un terzo grassone, questo molto scuro, una specie di grassone azteco coi baffetti, e domanda ai suoi coinquilini cosa succede. Tre contro uno, pensa Belano, è ora di andarsene. Il grassone coi baffetti lo guarda e gli chiede cosa vuole. Questo stupido sta suonando il campanello dell'appartamento di Ulises Lima, dice il primo grassone. Hai conosciuto Ulises Lima?, dice il grassone coi baffetti. Si, dice Belano, sono stato suo amico. E come ti chiami, bastardo? dice il grassone con la maglia. Allora Arturo Belano dice il suo nome e poi aggiunge che se ne va, che gli dispiace aver dato loro fastidio, ma questa volta i tre grassoni lo guardano con vero interesse, come se lo vedessero sotto un'altra luce, e il grassone con la maglia sorride e dice non prendermi in giro, tu non ti puoi chiamare Arturo Belano, anche se nel modo in cui lo dice Belano si rende conto che l'altro, anche se non lo crede, vuole crederlo.
  Poi vede sè stesso, come se stesse contemplando un film molto triste che lui non guarderebbe mai, all'interno dell'appartamento dei grassoni, al centro delle attenzioni di questi, che gli offrono birra, no grazie, non bevo più, dice Belano, seduto su una poltrona sgangherata con un motivo di fiori marci, e un bicchiere di acqua nella mano che non si decide ad assaggiare, poichè l'acqua del DF, lo avevano messo in guardia e tra l'altro lo sapeva da sempre, provoca gastroenteriti, mentre i grassoni prendono posizione nelle sedie  che ci sono attorno e uno di loro, quello che è a petto nudo, si siede in terra, come se temesse di rompere col suo peso un'altra sedia o come se temesse la reazione dei suoi compagni davanti a quella possibilità.
  Il grassone a petto nudo si comporta in qualche maniera come uno schiavo, pensa Belano.
  Quello che segue è caotico e sentimentale: i grassoni lo informano che loro sono stati gli ultimi discepoli di Ulises Lima (si definiscono così: discepoli). Gli parlano della sua morte, investito da un'auto misteriosa, un Impala nera, e gli parlano della sua vita, un susseguirsi di sbornie senza senso nelle quali andò lasciando la sua impronta, come se i bar e le camere in cui Ulises Lima si sentì male e vomitò fossero i diversi volumi della sua opera completa. Anche, soprattutto, parlano di sè stessi: hanno un gruppo rock chiamato El Ojete de Morelos e suonano in discoteche delle perferie del DF. Hanno inciso un disco che le emittenti radio ufficiali non accettano a causa del contenuto dei loro testi. Le piccole emittenti, al contrario, stanno tutto il giorno a trasmettere le loro canzoni. Siamo ogni giorno più famosi, dicono, però continuiamo ad essere ribelli. Il sentiero di Ulises Lima, dicono, i proiettili traccianti di Ulises Lima, la poesia del più grande poeta messicano.
  Poi passano dal dire al fare e mettono su un compact disc con pezzi degli El Ojete de Morelos che Belano ascolta immobile, con la mano stretta a reggere il bicchiere d'acqua non ancora bevuto e guardando il pavimento, sporco, e le pareti, piene di poster dei Los Amos del Barrio e degli El Ojete de Morelos e di altri gruppi che lui non conosce o che forse sono formazioni musicali dove avevano suonato prima i Los Amos del Barrio o gli El Ojete de Morelos, ragazzi messicani che lo guardano dalle foto o dall'inferno maneggiando le loro chitarre elettriche come se fossero armi o come se stessero morendo di freddo.


domenica 22 maggio 2011

Il sogno del topo, Dvd Illevir


  L’uomo col quale ha inizio questa storia ha un nome ed un cognome, anche se irrilevanti, la donna no. L’uomo si chiama Franco F. ma, come detto poc’anzi, è del tutto ininfluente. E’ sera quando Franco F. decide di portare fuori il cane, una specie di topo mezzo spelacchiato che, sostiene lei, è la gioia degli occhi della moglie, la signora F. In realtà non decide assolutamente nulla. Come ogni sera ad un’ora precisa, le nove e quindici per l’esattezza (ma pure questo è un particolare marginale) Franco F. si alza dal divano, lascia la tv accesa, il volume al minimo, apre la porta dello stanzino e prende il guinzaglio, lo assicura col moschettone al collarino rosso del Topo, s’infila le scarpe, la giacca a vento, indossa guanti e berretto, prende il suo mazzo personale delle chiavi di casa, ed esce sul pianerottolo. Come ogni sera, non ha la minima percezione di ciò che va facendo, entra nell’ascensore, pigia il tasto T, fissa dritto davanti a sé, esce dall’ascensore al piano terra, calza bene il berretto a coprire le orecchie, solleva la zip della giacca a vento gialla fino a coprirsi il collo, ed esce in strada. Prende a destra verso la stazione e così facendo comincia la sua passeggiata notturna col Topo. Come ogni sera. Ogni dannata sera da cinque anni a quella parte. Cinque anni, sei mesi e tredici giorni, esattamente dal giorno in cui sua moglie è tornata a casa col Topo, un giorno di Agosto.

  Non è sempre stata questa la vita di Franco F. Esiste un prima e un dopo. Mi correggo, esistono tanti prima e tanti dopo. Prima e dopo l’arrivo del Topo. Prima e dopo il tradimento della signora F. con un collega di lavoro di quindici anni più giovane di lei, e di ventidue più giovane di lui. Prima e dopo il tradimento del signor Franco F. con una collega di tre anni più vecchia di lui, e quindi di dieci anni più vecchia della signora F. (ergo di venticinque anni più giovane dell’amante della signora F.) Prima e dopo il momento in cui il figlio, Luca F., ha lasciato casa dei genitori ed è andato a vivere da solo. Prima e dopo la morte di suo padre. Prima e dopo il cambio di lavoro. Prima e dopo la morte di sua madre. Prima e dopo la nascita di Luca F. Prima e dopo il matrimonio. A voler tornare indietro e percorrere a ritroso tutte queste svolte, una per una (ce ne sarebbero molte altre ovviamente, ma queste vanno considerate quelle essenziali), il signor Franco F. potrebbe tornare a vedere sé stesso com’era trentacinque anni addietro. Poi potrebbe identificare altri prima e altri dopo, e tornare ancora indietro nel tempo, e sbirciare un sé stesso ragazzino, e così via fino al momento in cui venne espulso dalla vagina di sua madre, santa donna. Ad ogni passo a ritroso si vedrebbe costretto a togliere qualcosa di sé per poter tornare al sé precedente, ogni passo un’esperienza, o più esperienze. Ogni passo una parte di sé che viene elisa e buttata via. Se tornasse indietro fino a quel feto coperto di materiale amniotico, rossastro e urlante, non ci vedrebbe poi quella gran differenza rispetto al signor Franco F. di oggi, quello che si alza alla nove e quindici della sera dal divano per portare il Topo a pisciare al parco. Oggi non ci sono tracce di materiale amniotico, è in parte rossastro (colorito da far risalire a certi problemi di circolazione ed al cicchetto serale che ama consumare davanti alla tv poco prima di uscire) e non urla più, anche se vorrebbe farlo. Se gli fosse concesso, se credesse realmente che potesse servire a qualcosa, allora urlerebbe, urlerebbe fino a far crollare in pezzi i vetri di tutte le finestre del palazzo, e di quelli accanto, e di quelli di fronte, minerebbe alle fondamenta le basi stesse della Città col suo urlo, ma non può. Pensa che sia troppo tardi ormai, che non ne valga più la pena, che sia sconveniente per un uomo della sua età, e poi sa - ne è perfettamente cosciente - che non serve a niente. Non è servito con sua moglie, la signora F., non è servito con suo figlio Luca F., e non serve ora col Topo. Non è servito al lavoro, non è servito coi suoi genitori che, nonostante tutto, sono morti ugualmente e l’hanno lasciato solo in questo mondo assurdo e spaventoso, non è servito con l’amante di sua moglie, che ha continuato a scoparsela fino a che gli è parso, vale a dire fino a quando non si è scapricciato di lei e non ne ha trovata una più giovane e pneumatica. Da tutte queste esperienze (ed altre ancora che non stiamo qui ad elencare) Franco F. ha dedotto che urlare non serve a granché, nella vita. Comunque non nella sua. Si chiama, metodo empirico. A volte, tra l’altro peggiora le cose. Non sempre, ma a volte si. E, sostiene il suo medico, non fa bene al cuore, anche se in realtà ha letto su una rivista di sua moglie uno studio svedese che postula esattamente il contrario, cioè che urlare fa bene al cuore. Anche se fosse, pensa Franco F., ha già urlato a sufficienza in vita sua. Adesso è meglio farsi un cicchetto di Glen Grant tutte le sere, pensa. Talvolta, di notte, sogna di uccidere la signora F. e il Topo, uscire di casa come se niente fosse accaduto, e andare a casa di suo figlio, chiamarlo al citofono, mettersi in viaggio con lui in direzione del mare e, una volta arrivati, affittare una barca. Nel sogno è suo figlio che rema, mentre lui gli parla e gli racconta che cos’è stata la sua vita, tutta la sua vita, pezzo per pezzo, prima che lui nascesse e dopo la sua nascita, e mentre racconta si rende conto di trovarsi nel bel mezzo di una storia dell’orrore, o qualcosa di molto simile. Capisce che ormai si avvicina al giorno della sua morte e che non ci ha mai riflettuto prima, ogni colpo di remo un passo verso la fine, così smette di raccontare e tace. Si guarda attorno e prende atto del fatto che sono ormai lontani dalla riva, suo figlio lo fissa senza dir niente, gli occhi due fessure che paiono coltellini serramanico. Luca F. si asciuga il sudore dalla fronte e sbuffa, si alza in piedi nella barca, un piccolo gozzetto malandato che oscilla al ritmo delle onde. Allora, nel sogno, il signor Franco F. lo spinge in acqua. E’ un gesto che si permette di porre in atto, nel sogno, perché è perfettamente cosciente del fatto che suo figlio non sa nuotare. Non ha mai voluto imparare, nonostante le sue insistenze. Ad un certo punto, quando Luca aveva suppergiù quindici anni, ci aveva rinunciato. Se non vuole imparare, aveva pensato, non impari. Se non vuole nuotare, non nuoti. Poi nel sogno prendeva in mano i remi e tornava, lentamente, a riva. A quel punto si era ormai a calasole, un sole basso più sulle tinte dell’arancione che del rosso o del giallo, e la pelle gli pizzicava scottata, e anche la pelata in testa gli dava fastidio, ma si trattava di un fastidio quasi piacevole, perché in fondo lo faceva sentire vivo.
  Le mattine che seguivano le notti in cui aveva sognato di aver ridotto la sua famiglia al grado zero, si svegliava con i muscoli della mandibola insolitamente rilassati, cosa che gli capitava di rado ormai. In bagno, mentre orinava, quelle mattine, si riscopriva a sorridere e ad annusare lo scroscio d’orina, come faceva da ragazzo, poi d’un tratto non ci pensava più o se ne scordava del tutto, e poco alla volta la giornata lo portava di nuovo a contrarre la muscolatura mandibolare, involontariamente.

  Come ogni sera, a cinquecento metri dalla stazione svolta a destra, e dopo duecentocinquanta metri penetra nel Parco. Fa un freddo cane, sente le gote diventare come di marmo, e il naso, e gli occhi come se gli colassero anche se in realtà non colano. E’ il naso che cola, ma di quello non se ne accorge. Il Topo zampetta due passi avanti a lui, senza mai voltarsi, come se il signor Franco F. non esistesse. A dire il vero il Parco, di notte, non è il posto più sicuro dove andare ad impelagarsi, ma questa è una motivazione che non ha mai fatto molta presa sul signor Franco F. Il Parco gli piace, specie la notte, e proprio perché c’è la reale possibilità di imbattersi in qualcosa (o qualcuno) di sconveniente. Spacciatori, coppiette, guardoni, tossici, fedifraghi, marchettari, prostitute e altra umanità varia che nel Parco, la notte, pullula. Per assurdo che possa sembrare, nonostante quanto predica ogni sera il telegiornale delle otto - emergenza microcriminalità, emergenza prostituzione, emergenza clandestini, emergenza violenze sessuali, emergenza spaccio - là dentro non gli è mai capitato nulla di male. Mai avuto problemi. Buongiorno e buonasera, e ognuno per la sua strada oppure, a volte, anche solo un cenno del capo, e poi ugualmente ognuno per la sua strada. Lo conoscono tutti, nel Parco, e tutti lo rispettano, anche se lo considerano un tantinello strano. Si sono passati la voce: non ci sta più tanto con la testa, dicono. Alzano gli occhi al cielo, fanno smorfie, roteano l’indice accanto alla tempia. Un po’ fuori di melone, poverino. All’inizio le prostitute s’erano prese paura, temevano un maniaco, a quell’ora, un uomo con un cane al guinzaglio, nel Parco, che le salutava con un gesto della mano o chinando lievemente il capo, o sorridendo. C’era poco da stare tranquilli. I due papponi che si dividevano la zona lo seguirono tutte le sere per una settimana, da quando entrava da via Garibaldi a quando usciva lungo il prato che porta, due chilometri più in là, alle case popolari di Via Carlo Marx. Ogni sera il signor Franco F. li aveva salutati educatamente e aveva proseguito la sua passeggiata per far pisciare il Topo. In fondo aveva sempre desiderato far parte di quel tipo di mondo, almeno ogni tanto o anche solo una volta nella vita. Mettere il piede in quell’universo sbilenco, scuro, kitsch, e lasciarsi andare, fare due passi, guardarsi attorno, vedere cosa s’era perso quando aveva imboccato la strada della normalità. Sua moglie non sa che la sera entra nel Parco; gliel’ha proibito. Dice che è pericoloso. Il signor Franco F. invece ha deciso che quel momento serale deve essere tutto suo, solo suo, e dunque ha deliberato di fottersene altamente di quello che gli vorrebbe imporre sua moglie, e nel Parco ci entra. E quando si trova nello spiazzo centrale si ferma, abbassa la cerniera della giacca a vento gialla e rovista in una tasca interna. Tira fuori uno degli spinelli che gli ha rollato suo figlio per l’intera settimana, e se lo fuma in santa pace. La Luna, quando c’è, prende a roteare, le stelle si gonfiano fino quasi ad esplodere, poi tutto si fa piccolo e la volta notturna viene risucchiata in una colonna di fumo denso. Il Topo si ferma, si accuccia e aspetta che il padrone abbia terminato poi, prima di ripartire si mette a raspare la terra con le zampette posteriori, corte e tozze, fa un giro attorno a sé stesso e si volta a controllare se sono finalmente pronti per ripartire. Dopo cinque minuti, sette al massimo, sono pronti, e ripartono. Quella sera il signor Franco incontra, nell’ordine: uno spacciatore locale, due tossici seduti su una panchina, uno spacciatore d’importazione, probabilmente dal Maghreb, quattro prostitute di cui una poteva essere anche un uomo con le tette (ma, nella penombra, non ha potuto acclararlo con certezza), e due vecchi centenari che avevano tutta l’aria di essere degli ectoplasmi manifestatasi, a sproposito, nello stesso Parco dove da ragazzini si erano giurati amore eterno. S’era fumato la canna in cinque minuti e sedici secondi e aveva ripreso la sua passeggiata notturna nel gelo invernale metropolitano. Per un attimo, come ogni sera, si era domandato come diavolo facessero le prostitute a starsene mezze nude col freddo che faceva poi, come ogni sera, subito dopo aver terminato il pensiero, l’aveva cancellato e aveva proseguito a camminare, un piede avanti all’altro, lentamente. C’era un quarto di Luna in cielo, sgonfia e fuori luogo come avrebbe potuto esserlo un quarto di bue appeso ad un gancio nero nel cielo notturno. A volte gli veniva da piangere, ma non quella sera. In inverno gli capitava di rado, la primavera abbastanza spesso, senza un motivo particolare e con un milione di motivi in generale (si diceva lui, ma preferiva di solito non rifletterci troppo). Quella sera no. Uscì dal Parco e gli venne un groppo alla gola che però si sciolse in un battibaleno, si avventurò per i prati puntellati di immondizie e qualche siringa, e seguì il tracciato dei vecchi binari, ormai abbandonati e coperti di erbacce e gramigna, edera e preservativi. E vide la donna. Lei con ogni probabilità non si avvide della presenza del signor Franco F. e continuò a camminare poggiando la pianta nuda dei piedi sulle traversine ghiacciate dei vecchi binari.

  La scena dovrebbe rimanere impressa. Un prato (che a quell’ora poteva anche sembrare) sconfinato, bagnato del chiarore del quarto di Luna di cui sopra e chiazzato di brina gelata, una donna coperta solo da una sottoveste strappata in più punti e macchiata di materia che aveva tutta l’aria di essere sangue rappreso, a piedi nudi, a camminare come in trance su binari fantasma che si estendevano da un nulla ad un altro nulla, nel bel mezzo del cuore malato e putrefatto della metropoli. Il Topo era divenuto irrequieto e s’era messo a ringhiare e a mostrare i denti, gli si era sollevata una striscia di pelo lungo il percorso della colonna vertebrale.

 La signora F. è al piano di sopra assieme alla signora Liliana a parlare, dice lei, in realtà a malignare sulla figlia diciassettenne della signora Maria del primo piano. E’ salita subito dopo mangiato mentre suo marito se ne stava semiaddormentato in salotto davanti al televisore, ha detto << Arrivo subito. Salgo un attimo a fare due parole. >> e non è più scesa. Angela, la figlia della signora Maria del primo piano, è rimasta incinta cinque mesi fa e ora, per ovvie ragioni, non può più nascondere la gravidanza. Il padre della creatura che porta in grembo è un mistero. Non si parla d’altro nel palazzo. Il riscaldamento nell’appartamento della signora Liliana è al massimo, come al solito, il termometro segna ventidue gradi, e le due donne se ne stanno in camicetta estiva facendosi aria coi giornali (Stop, Novella 200, Gente, ecc.) che non mancano mai sul tavolino in vetro davanti alla televisione, accesa seppur a volume molto basso. Due anni fa, nel primo pomeriggio, si incontravano nell’appartamento ora dell’una ora dell’altra, si spogliavano e cercavano di far l’amore tra di loro, aiutandosi con una cassetta porno degli anni 80 che era appartenuta al defunto marito della signora Liliana, il signor Carlo, poi dopo qualche mese smisero. Perché cominciarono? Perché smisero quando smisero? Vai a saperlo. Adesso però non cercano più di far l’amore l’una all’altra e sono tutte impegnate nella faccenda della figlia della signora Maria. Se ne avessero la possibilità chiamerebbero i Ris per togliersi lo sfizio di sapere chi sia stato l’imbecille che l’ha messa incinta. E che coraggio, si dicono, perché, ora, con tutto il rispetto che si deve ad una ragazzina, la Mariella non è certo una gran bellezza. Questo è il minimo che si possa dire, commenta la signora Liliana. E non pensiamo al massimo allora. Ridono. Una pensa che sia stato un compagno di scuola incapace di controllare i propri ormoni, un imberbe. L’altra sostiene si tratti di un uomo adulto, sposato tra l’altro, un uomo adulto, sposato e con figli, un commesso viaggiatore, no, un tizio del comune, forse un extracomunitario. Un negro. Ridono. Adesso ci si divertirà a vedere di che colore nasce, la creatura. La signora F. si porta la mano destra alla bocca, Ommiodio, pensa se nascesse tutto nero… Nero! Pensa povera Maria, proprio lei che non li può vedere quelli là. Lo sai come si dice, commenta la signora F., quando vuoi evitare qualcosa, stai tranquilla che ti capita tra i piedi, no? No, dice, non si dice così, il succo è quello, ma non dice così il proverbio, ora non ricordo… Certo, perché non è un proverbio, non ho mai parlato di proverbio. E allora cos’è? Un modo di dire, no? Ecco cos’è. Comunque hai capito cosa intendo. Comunque io continuo a pensare che, nonostante i voli di fantasia, il padre sia un ragazzino, uno di scuola magari. Vai a sapere. E perché no allora un professore?, si chiede la signora Liliana. Si, e allora perché non il presidente del consiglio o il Papa? Che c’entra il Papa? Era così per dire. Poi si domandano come avrà reagito il marito della signora Maria, e se già lo hanno messo a conoscenza del fattaccio. Forse no, altrimenti, dicono, l’avrebbe già fatta abortire a calci in pancia. Non dirlo neppure per scherzo, poverina. Non lo dico, dice la signora Liliana, ma lo sai com’è fatto quell’uomo, bravo e tutto, gran lavoratore, ma quando perde la ragione non c’è santo che tenga. Quindi, i santi non lo tengono. I santi non hanno potere su di lui. Forse non sa ancora niente, il marito, forse è di sotto che russa davanti alla televisione proprio in quel preciso momento, mentre la figlia e la madre se ne stanno in camera a decidere sul da farsi. Ma com’è possibile che non si sia ancora accorto di niente, diomio, lo vedrebbe anche un cieco che è incinta, la bambina, o ha ingoiato un cocomero intero o dev’essere per forza incinta.

  Il signor Franco F. si abbassa la cerniera della giacca a vento gialla, se la sfila e la poggia sulle spalle della donna, le infila in testa il suo cappello e nelle mani i suoi guanti, poi l’abbraccia. Non sa esattamente perché la stia abbracciando, da dove nasca quel gesto, ma non gli importa. Si giustifica dicendosi che l’ha fatto per scaldarla, e non è certo una bugia, ma non è neppure tutta la verità. C’è dell’altro, forse, ma non ha idea di cosa si tratti. Il gesto gli è nato spontaneo, e mentre la stringeva tra le braccia ha provato delle sensazioni contrastanti. Si è sentito meglio, meglio rispetto a come si è sentito negli ultimi anni della sua vita, forse addirittura da quando era innamorato della signora F., prima ancora di sposarla, poi ha provato dei brividi lungo tutto il corpo (in parte, ha pensato, poteva centrare il freddo e il non avere più la protezione della giacca), inoltre gli è nata come una gran voglia di piangere, come se quel groppo in gola che a volte gli si formava non potesse far altro che esplodere, e così ha pianto, in silenzio, ma ha pianto come non gli succedeva da anni. Infine si è reso conto di avere un’erezione nei pantaloni, altra manifestazione ormai assai rara in lui. Ha preso la testa della donna tra le mani e le ha baciato la fronte. Il Topo ai suoi piedi ringhiava, mostrava i denti, si spostava avanti ed indietro sulle zampette corte e tozze, orribili. Terminato il pianto si è sentito diverso, come se non fosse più lui, ma un altro, come se fosse un tizio più giovane e con molta più forza a circolargli nel corpo (sensazione in parte dovuta all’ebbrezza dell’erezione), come se non avesse un figlio adulto né una moglie. Per la prima volta in vita sua molla un calcio al Topo, poi circonda le spalle della donna e si avvia con lei verso il Parco. Li vedono le prostitute, li vedono i tossici, li vedono gli spostati nel buio. La notte stessa pare concentrata a seguire i loro passi. Arrivato di fronte al portone di casa infila le mani nella tasca destra della giacca a vento gialla, ora indosso alla donna, prende le chiavi, entra. Sale con la donna fino al suo appartamento, entra. Entra anche lei. Sua moglie è ancora di sopra, dalla signora Liliana, non aveva dubbi. Porta la donna senza nome in bagno, la spoglia e la lava con un asciugamano bagnato, cancella le tracce di terra, di sporco e di sangue, le asciuga il sudore freddo, poi le solleva le braccia e le passa del deodorante sulle ascelle. Le spruzza del profumo della moglie poi va in camera e sceglie dei vestiti della signora F., e glieli fa indossare. In realtà è lui a vestirla perché la donna misteriosa pare trovarsi in stato di shock. Aiutandosi con una sedia recupera una valigia che tengono sopra l’armadio, la riempie di vestiti suoi, qualcosa della moglie ed esce dalla stanza. Prende le chiavi della macchina, chiude il Topo in cucina, non prima di avergli riempito la ciotola di carne in scatola di modo che non abbai, ed esce.

  Quando è alla guida ormai da una buona mezz’ora il signor Franco F. realizza quello che sta facendo. E’ un attimo, come un flash che gli chiarisce all’improvviso qual è il reale stato della situazione. Questa consapevolezza improvvisa ha qualcosa di doloroso in sé, forse perché non è più abituato ad avere in mano le redini della propria vita o, se le ha avute, non ha mai avuto la sensazione di averle. D’un tratto è invaso dalla paura, una paura fottuta che lo stringe come una morsa, lo fa sudare, gli porta extrasistole e calore improvviso alle orecchie. In quei momenti maledice la sua abitudine ad uscire di casa tutte le sere alla stessa ora per portare il Topo a pisciare, maledice il Topo, maledice la donna senza nome e prende in seria considerazione l’idea di lasciarla per strada e tornare indietro, a casa, alla sua vita di tutti i giorni. Sua moglie dev’essere certamente ancora dalla signora Liliana, non si accorgerebbe di niente. Inserisce la freccia, accosta di lato. Spegne le luci e si ferma a pensare, sbuffa, le mani strette al volante. Fuori, lassù in alto, c’è sempre quella Luna demente che non ne vuol sapere di farsi da parte, lui stringe di più le mani al volante, forse, se non ci fosse stata la Luna, non avrebbe sollevato lo sguardo, forse non avrebbe notato la donna, forse avrebbe terminato il suo giro col cane e sarebbe tornato a casa. Maledice la Luna. Forse è una prostituta che è stata picchiata, e i suoi padroni la rivorranno indietro. Forse è la moglie di qualcuno, qualcuno che l’ha picchiata e la rivorrà indietro. Forse è una donna che si è persa, o che è stata rapita da qualche balordo che l’ha violentata, e da qualche parte ci sarà un marito, dei figli, dei genitori che la stanno cercando, che la rivogliono indietro, pensa. Qualcuno inoltrerà una denuncia di scomparsa. La cercheranno. La rivorranno indietro. Esce dall’abitacolo, sbatte la portiera. Lo sguardo della donna è sempre fisso davanti a sé, ma è come se vagasse in qualche altro universo che solo a lei è dato scorgere. Davanti a sé vede il buio e, di tanto in tanto, i fanalini rossi posteriori delle auto che sfrecciano sulla strada. Fuori fa freddo e il signor Franco F. spera che quel freddo lo aiuti a pensare meglio. Si usa dire così. Si accende il secondo spinello della serata,  e fissa i campi neri ai lati della strada. La butto in mezzo ai campi, pensa. Arrivava da un campo e in un campo la lascio. Rimetto le cose a posto. Si volta di scatto e spalanca la portiera dalla parte della donna, la tira fuori strattonandola per il braccio destro. Adesso è in piedi, accanto a lui, sono quasi alti uguali nota. La spinge verso il buio, verso i campi, poi sale in macchina, mette in moto, fila via.

  Quando torna a casa, sua moglie non è ancora scesa. Disfa in fretta la valigia, rimette tutto a posto, fa uscire il Topo dalla cucina e gli concede una carezza veloce sulla testa. Si sdraia sul divano, come tutte le sere, la tv accesa, e finge di addormentarsi. Quando la signora F., finalmente, torna dalla sua sessione notturna di malignità, lo sveglia, lo rimbrotta come tutte fa tutte le sere per il fatto di essersi addormentato davanti alla televisione, poi si chiude in bagno. Quando ne esce, il signor Franco F. è a letto, dorme. Per un attimo prende in considerazione l’idea di svegliarlo per far si che adempia ai suoi doveri coniugali, poi decide che non ha senso, si sdraia e pensa che ci sarà da ridere se il pargolo nascerà nero come il carbone.

  La sera successiva, come ogni sera alle nove e quindici esatte, Franco F. si alza dal divano, lascia la tv accesa, il volume al minimo, apre la porta dello stanzino e prende il guinzaglio, lo assicura col moschettone al collarino rosso del Topo, s’infila le scarpe, la giacca a vento, indossa guanti e berretto, prende il suo mazzo personale delle chiavi di casa, ed esce sul pianerottolo. Come ogni sera, non ha la minima percezione di ciò che va facendo, entra nell’ascensore, pigia il tasto T, fissa dritto davanti a sé, esce dall’ascensore al piano terra, calza bene il berretto a coprire le orecchie, solleva la zip della giacca a vento gialla fino a coprirsi il collo, ed esce in strada. Prende a destra verso la stazione e così facendo comincia la sua passeggiata notturna col Topo. Questa volta però c’è qualcosa di diverso in lui. Finge che sia tutto un automatismo di cui non ha neppure più la consapevolezza, ma in realtà dentro di sé è abitato dall’inquietudine. Recita per sua moglie, forse anche per il Topo, ma soprattutto recita per sé stesso. Come ogni sera poi, a cinquecento metri dalla stazione svolta a destra, e dopo duecentocinquanta metri penetra nel Parco. Fa un freddo cane, sente le gote diventare come di marmo, e il naso, e gli occhi come se gli colassero anche se in realtà non colano. E’ il naso che cola, ma di quello non se ne accorge. Il Topo zampetta due passi avanti a lui, senza mai voltarsi. S’inoltra nel buia, supera le prostitute, gli spacciatori, due finocchi, uno vecchio, l’altro troppo giovane, e ad un tratto si ferma, tira fuori la canna e se la fuma. Cinque minuti e qualche secondo, il Topo seduto in terra ad aspettare. Poi prosegue. Esce dal Parco, il campo ghiacciato, la Luna semicoperta da grosse nubi scure, i vecchi binari, erbacce, gramigna, edera e preservativi. Inspira a fondo il freddo della notte, a fondo, i polmoni gli fanno male, e alza lo sguardo. E la vede. La donna. Lei con ogni probabilità non si rende conto della sua presenza e continua a camminare poggiando la pianta nuda dei piedi sulle traversine ghiacciate dei vecchi binari. Quando sono ad un passo l’uno dall’altra, lui le si pone di fronte e lei si ferma, lo trapassa con lo sguardo, come se fosse un puntaspilli, e non dice niente. Ha gli occhi vuoti, come la sera precedente, indossa la camicia da notte strappata e sporca e ha un ago ipodermico infilato nel braccio sinistro, assicurato alla pelle con un grosso cerotto di garza. Il signor Franco F. questa volta nota che ha dei segni che le circondano i polsi e le caviglie, come se fosse stata prigioniera da qualche parte, assicurata con una catena, o con una corda o magari con delle fasce di cuoio. Vorrebbe guardarla negli occhi ma prova vergogna, e paura. E’ come se quella donna stesse poco alla volta prendendo il sopravvento su di lui. D’altronde, pensa, non ci vuole molto. Non è mai costato troppa fatica a nessuno mettergli i piedi in testa e piegarlo alla propria volontà. China il capo e si scosta. Guardando in basso nota che il Topo non sta ringhiando, ma annusa in direzione della donna. La guarda allontanarsi lungo il vecchio tracciato dei binari, poi si soffia il naso coi guanti e torna indietro. Mentre cammina verso casa pensa alla tv accesa davanti al divano vuoto.

  La sera dopo ancora, alla stessa ora, il guinzaglio, il cane, la giacca, il cappello, i guanti, il portone di sotto, a destra, poi il parco, le puttane, i tossici, uno nuovo che non aveva mai visto, magro scheletrico e brutto che non si può vedere, una vecchia sola che balbetta vecchie poesie del Carducci, lo spiazzo, la canna, la Luna che si gonfia, i battiti nel petto che vanno più veloci poi scompaiono, il Topo che aspetta, l’uscita dal Parco, il campo, le erbacce, preservativi, fazzolettini, siringhe, gramigna, ancora erbacce e ancora fazzolettini, il ghiaccio sull’erba, sui preservativi, sui fazzoletti, sulle erbacce, sulle siringhe, ancora il ghiaccio sulle erbacce ancora il ghiaccio sui fazzolettini, le traversine, il ghiaccio sulle traversine, le traversine abbandonate dei binari abbandonati della linea dismessa. La donna, che cammina come se tentasse di mantenersi in equilibrio su una linea invisibile che divide il campo da un abisso, o un abisso da un altro abisso, entrambi coperti a malapena dal campo, sia a destra che a sinistra. La donna si avvicina, lui è di fronte a lei, la donna si blocca, lo guarda ma non lo vede, ha la pelle quasi trasparente e sotto lo sporco e le macchie di sangue rappreso si possono notare le efelidi. All’improvviso, a causa delle efelidi, il signor Franco F. riesce ad immaginarla ragazzina, o bambina, o crede di riuscire ad immaginarla ragazzina o bambina. Viene colto dallo sconforto. Sa che ha sbagliato tutto, nella sua vita, senza poter escludere nulla e sa che potrebbe ancora porvi rimedio, ma non sa come. Se lo sapesse, tra l’altro, non avrebbe il coraggio di fare niente. Rimane fermo e stavolta la guarda negli occhi. Sono occhi sotto vuoto, non c’è più niente, qualcuno o qualcosa ha portato via tutto. Chi sei?, le chiede. Poi le chiede cosa le sia capitato. Poi, Da dove vieni?, le domanda. Poi, stai bene? Poi, di nuovo, Chi sei? Dimmi come ti chiami. Chi è che ti ha fatto questo? La donna, nota, ha sempre un ago ipodermico nel braccio, ma stavolta in quello destro. Ha dei segni all’attaccatura dei seni, e altri sulle gambe, come se l’avessero punta più volte. Perché, si domanda Franco F., si dovrebbe pungere una persona in più punti, più volte? I segni attorno ai polsi e alle caviglie sono arrossati e ha perso sangue dal naso. Cosa hai fatto dei vestiti che ti ho dato l’altra sera?, le chiede. Dove sono i vestiti?, scandisce le parole come se così facendo la donna potesse capirlo, come se invece di essere in stato di shock fosse scema, o dura d’orecchi. Si rende conto che sua moglie, la signora F., prima o poi si accorgerà della mancanza degli abiti che aveva fatto indossare alla donna, e darà fuori di matto. Non ci vuole pensare, non ne ha la forza. Schiocca un bacio in fronte alla donna, le augura buona fortuna e torna sulla strada di casa. Stavolta il Topo scodinzola, e dà l’impressione di voler rimanere con la donna.
  A casa la signora F. sta parlando al telefono con qualcuno e il signor Franco F. spera tanto che si tratti di un amante, un amante giovane e bello, o vecchio e bello, o anche vecchio e brutto, qualunque cosa, purché si tratti di una amante sventato a tal punto da prenderla e portarla via con sé, da qualche parte in culo al mondo e per sempre. In cucina nota che su due piastrelle in terra ci sono piccole goccioline di sangue, rosso fuoco, che spiccano sul bianco Amuchina del pavimento come stelle del firmamento. Studia la moglie, se si sia tagliata o bucata e, per quel che gli è dato vedere, no, non si è tagliata né bucata né graffiata. Dice vado a dormire, ma poi si ferma in sala, si siede sul divano e rimane a fissare uno show alla tv con gente famosa che balla e cade in terra e tutti quanti applaudono. In culo al firmamento, pensa.

  Poi, per due settimane, la donna misteriosa non si fa più vedere al campo dietro il Parco, e il signor Franco F. è come se se ne avesse a male. Dapprima si risente, poi passando i giorni, viene lentamente invaso dalla paura prima e dal terrore poi di non rivederla più. Quella donna, si rende conto, l’assurdità della sua esistenza notte dopo notte, il mistero che porta con sé, il suo essere alla mercé di chiunque, la sofferenza che porta impressa sulla pelle e il vuoto assoluto del suo sguardo, gli sono indispensabili. Sono una via, piccola, stretta e buia, ma rappresentano l’unica via di fuga che la vita gli ha concesso. Quando torna a casa, al termine della passeggiata per far pisciare il Topo, in quelle due settimane, si stende sul divano e ci si addormenta. Una notte, il mercoledì, la signora F. lo ha rimproverato per qualcosa che non ha afferrato, ha cominciato con toni bassi da serpente, lo ha insultato sottilmente poi, siccome lui non reagiva ma se ne stava sul divano, steso, a fissarla come si può fissare un aspirapolvere, ha preso a dar di matto, e alla fine urlava, poi è andata in camera da letto e ha sbattuto la porta e lui ha tirato un sospiro di sollievo. Diceva qualcosa che riguardava il figlio, ma non ha capito cosa. Il figlio cosa?, si domandava quella sera il signor Franco F. C’aveva pensato su e aveva deliberato che potevano essere capitate solo un numero non infinito di cose: poteva, la signora F., aver scoperto (all’improvviso) che il figlio ero drogato, poteva aver scoperto che era omosessuale, poteva aver scoperto che era un buono a nulla. Non rimanevano molte altre varianti. Poteva, il figlio, Luca F., aver perso dei soldi in qualche maniera poco lecita, poteva dover restituire questi soldi a persone poco dabbene. Poteva essere stato rapinato da persone poco dabbene. Poteva aver avuto un incidente in macchina. Forse, l’avevano licenziato. Quella fu la prima notte che il signor Franco F. trascorse a dormire sul divano, cullato dal volume basso della televisione che gli lasciava scivolare cavolate e slogan pubblicitari nei padiglioni auricolari. Si era sentito leggero nel sonno, ed era tornato a sognare della barca in mare, lui e suo figlio, e di suo figlio che non sapeva nuotare, e di lui che remava fino a riva.

  Il martedì della terza settimana la donna misteriosa ricompare, questa volta ha delle ferite aperte e le mancano un paio di denti in bocca. Il signor Franco F. è così straordinariamente felice di rivederla che la blocca per le braccia e la obbliga a sedersi su una pietra. Quando fa pressione con le mani attorno alle braccia della donna questa spalanca gli occhi e piange. Si tratta di un pianto silenzioso e lento, assurdo. Vuoto. Il signor Franco si mette a parlare: le racconta di sua moglie, del figlio che alla fine si era solo fatto bucare il sopracciglio destro per infilarci dentro un piercing del cazzo, le racconta del Topo e di come sia malauguratamente arrivato nella loro famiglia, le confida che non capisce più il significato di famiglia, e che forse non l’ha mai capito, che non riesce a voler bene a suo figlio, che non si sente né padre né madre, neppure figlio, forse, si sente più. Le racconta che dorme sul divano e di come si trova bene, ora, a dormire sul divano, con la televisione che lo blandisce (non usa il verbo blandire), le racconta di come si senta in qualche modo attratto da lei e poi fa un accenno alle macchioline sul pavimento in cucina. Non ci sono mai state prima delle macchioline in casa sua, non solo in cucina, da nessuna parte, tantomeno di sangue poi. Le dice che sospetta qualcosa riguardo quelle macchioline, ma non sa ancora cosa. Mentre parla gesticola, e mentre gesticola le sfiora una gamba poi, gettando le braccia nel vuoto come a casaccio, le sfiora un seno. Mentre le parla pensa che non vuol far altro che correre a casa e masturbarsi. Poi le racconta di altri episodi della sua vita, episodi oggettivamente ridicoli che non possono interessare nessuno, episodi lontani nel tempo che neppure lui sapeva di ricordare ancora, episodi che, forse, a pensarci bene, si sta inventando di sana pianta giusto per dire qualcosa perché, si accorge mentre se ne sta lì a blaterare a mille all’ora, è la prima volta da un milione d’anni a questa parte che le parole gli escono con quella facilità. Semplici, fluide, saporite; hanno un ritmo tutto loro che lo cullano e lo rendono euforico. Si stordisce coi suoi stessi racconti, e crede ciecamente a ciò che racconta senza porsi il problema di applicarvi un minimo di principio di veridicità. Ha l’impressione di andare avanti per delle ore, ma in realtà sono trascorsi pochi minuti e all’improvviso si trova svuotato e impaurito dalla sua stessa loquacità, e poi rimane terrorizzato dal suo silenzio. Non ha più niente da dire. In realtà non l’aveva neppure prima, ma prima sentiva l’urgenza di dire qualcosa, ora si rende conto dell’assurdità di tutto quel parlare a vuoto, e poi percepisce il vuoto. Allora si alza in piedi, e schiocca un bacio sulla fronte della donna, e corre a casa. Corre. Corre. Quando sbuca dall’altro lato del Parco, si trova senza fiato a domandarsi da quanto tempo non correva. Non ne aveva idea. Non conservava in sé il ricordo di aver mai corso in vita sua. Puttane, tossici e sciroccati del Parco lo hanno guardato schizzare per le stradine buie con sguardi allibiti e hanno creduto che avesse visto qualcosa, qualcosa di terribile ed alieno, magari un cadavere nel campo, e sono andati a vedere, ma nel campo non c’era nessuno, solo le traversine in legno del vecchio tracciato della ferrovia mangiate dal tempo, dal sole d’estate e dal gelo d’inverno, e gramigna, preservativi, fazzolettini, erbacce, e siringhe. Poi anche altre cose, tipo cartacce di snack, bottiglie di plastica ingiallite, fogli di giornale accartocciati come foglie d’autunno e due scarpe spaiate, ormai distrutte e lacere, una da uomo, di tipo da ginnastica, l’altra da donna, coi tacchi alti.  
  Tornato a casa il signor Franco F. scopre, in cucina, diverse pozze di sangue che pare essere fresco, rosso vermiglio. Pensa, sono le macchioline che si stanno ingrandendo. Si nutrono di qualcosa, e crescono. Va di fronte alla porta della camera da letto, prova ad aprirla ma è chiusa a chiave, allora bussa, ma non ottiene risposta. Allora chiama a voce alta il nome della moglie (che qui tralasciamo), ma niente. Allora lo urla, il nome della moglie (che tralasciamo anche qui), e ancora nessuna risposta. Allora poggia l’orecchio alla porta e crede di sentire dei rumori, ma come se provenissero da secoli di distanza, o da diverse stanze più in là, tutte separate da quelle precedenti da porte chiuse a chiave. Sembrerebbero i rumori di due persone che fanno la lotta, o l’amore, o qualcosa del genere, a volte pare soffino, altre che mugulino, altre ancora che sussurrino. Ma, se non sta cadendo in errore, sembrano essere più di due voci che si sovrappongono, sicuramente tre, forse anche quattro e, in certi momenti, è quasi certo di distinguerne una quinta.
  Quando torna in sala per stendersi sul divano ha ben chiaro nel cervello quello che ha combinato, però dopo un attimo di esitazione scuote la testa e decide di non pensarci più, almeno fino all’indomani mattina. Il giorno dopo, infatti, ha la controprova che non aveva senso preoccuparsi. Scende in strada, prende a destra, attraversa il Parco e sbuca nel campo, e lì trova il Topo che trema e sembra aspettare che qualcuno si prenda cura di lui. Il signor Franco F. lo chiama, raccoglie il guinzaglio incrostato di terra e torna verso casa. Il Parco, e il campo, e tutto quanto, pensa, non è lo stesso quando è giorno. E’ più bello di notte, pensa, molto più bello. C’è una puttana che sta tornando a casa dopo una notte di lavoro, lui la saluta, lei pure. Lei è quello che viene la sera a portare il cane, vero? Si, lui è quello del cane, la sera, ogni sera alla stessa ora. Lei è quella che la dà via tutte le sere, vicino alle panchine, vero? No, risponde lei, non vicino alle panchine, quella è Luana, io sto sotto gli alberi attorno alla fontana. Ora, la notte, magari non si vede, perché d’inverno chiudono l’acqua perché non si geli nei tubi, ma lì c’è la fontana. Il signor Franco F. lancia un’occhiata attorno, poi fa si con la testa, come se avesse visto la fontana. Ma non l’ha vista. Aveva dimenticato il cane ieri sera, fa lei. Si, avevo dimenticato il Topo. Non è un Topo, è un cane. Si, è un cane, ma il cane, questo cane, si chiama Topo. Ah, fa lei, sorride d’un sorriso un po’ storto. Le va un caffè? chiede lui. Non la fanno entrare col Topo, cioè col cane. Be’, lo lascio qui. C’è stato tutta la notte, ci può stare ancora un po’. E sua moglie? Be’, lei è a casa, mica è qui. Ma se ci vedono insieme in un bar, io e lei, cioè, a dire, lei e una prostituta… Ha ragione, fa il signor Franco F., forse è meglio di no. Non ci avevo pensato. Be’, fa lui, però se vuole può venire a prenderlo a casa mia il caffè, così nel mentre riporto il cane e non mi tocca lasciarlo qui dell’altro. E sua moglie? Mia moglie, si, è a casa, ma lei se ne sta chiusa in camera da letto. Credo ci sia altra gente con lei. In camera? Si, io dormo sul divano, davanti alla televisione, mia moglie in camera. E non esce mai? Adesso che ci penso è tanto che non la vedo. Va bene, senta, forse ha ragione lei, forse non è il caso, per il caffè intendo, forse è meglio lasciar perdere, ci sono troppe questioni attorno, un sacco di se e ma e forse e via discorrendo. Magari per un’altra occasione. Magari, va bene. Tanto ci vediamo tutte le sere. Tutte le sere, ripete lui. Senta, la richiama, lo vuole un cane? Lei ride, questa volta sinceramente, le si disegna sul viso il sorriso di una ragazzina di quindici anni, sedici al massimo, certo non quattordici, No, risponde, grazie, ci manca solo un cane nella mia vita. Un topo. Fanno ancora qualche passo l’uno accanto all’altra, e il signor Franco F. ha come la sensazione di riflettere su quanto sia bello passeggiare con una donna accanto che non ha nessun motivo al mondo per rinfacciarti niente.
  E, mi scusi, quella donna, chi è? Quale donna?, chiede Franco. La donna che incontra nel campo, chi è? Non lo so. Da dove arriva, dove va? Non lo so, risponde, poi tace. Quindi lei l’ha vista? L’abbiamo vista tutti, ovvio. Lei cosa ne pensa?, domanda lui. Che sia una schiava. Una schiava? Si, prigioniera di qualche maniaco qui attorno. Ci sono maniaci qui attorno? Il signor Franco F. si guarda a trecentosessanta gradi come se per la prima volta prendesse in considerazione la presenza di maniaci nascosti nell’ombra. Beh, fa lei, ci campo io coi maniaci. Ridacchia. Ci sono più maniaci che gente normale, dia retta a me. Qui? Nel mondo, risponde la prostituta. E quelli che vengono con lei, cosa sono, maniaci o gente normale? Lei ride, Un po’ gli uni un po’ gli altri. Maniaci pericolosi? Qualcuno. Cazzo, esclama lui. Lei finge di arrossire, Non davanti ad una signora! Allora il signor Franco F. si guarda verso il punto in cui le gambe si incontrano, poi scuote la testa. Scusi, dice, chissà a cosa pensavo. Ai maniaci, fa lei. Già, dice lui, ai maniaci. Il signor Franco F. pensa, In culo ai maniaci, ma non lo pensa soltanto, lo pronuncia a voce alta. Scusi, dice allora, per rimediare. Dove stiamo andando? Chiede lei. A scoprire dove la tengono rinchiusa. La donna? La donna.  

  Quando arrivano al fiume si siedono sulla riva, in terra, come ragazzini, e se ne stanno in silenzio a fissare le acque brune che scorrono più o meno lente in gorgoglii successivi ed ininterrotti. Se ne stanno con le loro teste poggiate sui palmi delle mani e con i loro gomiti poggiati sulle gambe ad attendere di vedere passare i loro stessi cadaveri, o quello della signora F., o della donna misteriosa, o di un essere umano qualsiasi, come nella canzone di De Andrè, coi cadaveri dei soldati portati in braccio dalla corrente. Ma cadaveri non se ne vedono, neppure uno, neppure l’ombra. A quel punto la prostituta ha terminato da un pezzo di raccontare la sua storia, e il signor Franco F. non ha fatto altro che tacere per tutto il tempo e, a volte, annuire col capo per lanciare un segnale che era ancora vivo. Poco alla volta che la donna metteva in piazza tutta quanta sé stessa, come d’altronde era abituata a fare ogni notte, e a lasciare alla mercé del giudizio di quell’uomo un po’ tocco e quasi del tutto sconosciuto i suoi segreti più ridicoli, il Signor Franco F. andava incupendosi. Lo sguardo gli si spegneva negli occhi. Gli si affossavano le spalle. Avrebbe voluto diventare come il cane, il Topo, e farsi piccolo piccolo e senza l’obbligo di avere un senso, invece restava là, di fronte a quella donna che diventava più forte ed immensa e invincibile ogni qual volta aggiungeva un aneddoto a quelli precedenti. Si alza un vento freddo che nel breve volgere di uno schiocco di dita si trasforma presto in un vento gelido, che però non sembra infastidirli più di tanto. Chi ne risente maggiormente è il Topo. Il Topo mugola. Si nasconde il muso tra le zampe, cerca riparo dietro la schiena del suo padrone e mugola di nuovo. Non la smette di mugolare. La questione è che, per quanto terribile, forse anche ignobile, certamente dolorosa, la vita della prostituta è immensamente più interessante di quella del signor Franco F. che, al contrario, non vale nulla. E’ un buco nero, pura antimateria. Non è solo che è più interessante, la vita di lei, che già non è poco ma al contempo non sarebbe neppure abbastanza, ma è il fatto che è enormemente più degna d’essere vissuta che prostra il signor Franco F. E non è tanto che la vita della puttana sia così degna d’essere vissuta, è che, al contrario, la sua non ha senso, e non è minimamente degna d’essere vissuta, e tantomeno raccontata a qualcuno, fosse anche una prostituta. Questo è il centro del tutto, di tutto quel vortice scuro che il signor Franco F. sente frusciare dentro di sé, inghiottirlo tutto intero, dalla testa ai piedi, anima compresa. Mi ascolti?, chiede lei. Lui fa un cenno d’assenso. Non è il caso di andarcene? Fa freddo qui, ora, guarda anche il tuo cane, si nasconde per via del vento. Non è un cane, fa lui, è un topo. E’ un cane. Un topo, ribatte lui. Un topocane; dai, andiamo. Senza sapere né quando né come né perché hanno preso a darsi del tu, con buona pace della differenza di età e di ceto sociale. Andiamo in centro, ti va?, propone lei. Al signor Franco F. non va, anche perché si riproporrebbe il problema di essere visto in giro con una prostituta, come per il caffè, ma non sa imporre un rifiuto, o forse semplicemente non ha voglia di scuotere il capo e dire no articolando la lingua nel cavo orale, e allora mugola qualcosa che potrebbe anche essere un si e che lei di conseguenza interpreta come un si. Allora, dice lei, Andiamo. E vanno.

  Risalgono lungo la riva del fiume, tra siringhe, preservativi, pagine strappate di giornali pornografici, biglietti del pullman, brandelli di vestiti laceri, una montatura di occhiali da sole ripiegata su sé stessa, penne bic svuotate e spezzate in più punti, la metà di una foto ingiallita dal sole - metà donna su metà spiaggia davanti a metà mare -, assorbenti usati, un assorbente nuovo (forse, ma non ci metterei la mano sul fuoco), un vecchio cd di Drupi rotto in due, cicche di sigarette, buste di plastica, un tacco di scarpa femminile, due falangi di una mano destra ormai irriconoscibili, mozziconi di canne, un orecchino di bijotteria, un cellulare Samsung con sportellino chiaramente calpestato e ormai inutilizzabile, un poliziesco tascabile in tedesco, vetri sparsi, una cornice da quattro soldi vuota e scheggiata, due tubetti di dentifricio (uno marca Colgate, l’altro Pasta del capitano), una pizza da asporto sbocconcellata, il cadavere in putrefazione di un gatto, forcine per capelli di varia foggia e colore, un manifesto elettorale strappato nel quale si riconosce una bocca, dei denti bianchi, una mandibola volitiva, un occhio, il destro, ritoccato al computer (come i denti e la mandibola d’altronde), un alambicco del Piccolo chimico, una decina di lacci emostatici, una ciabatta infradito di una marca non commercializzata in Italia, un biglietto da cinque euro coperto di terra, la fototessera di un bambino, un rosario, un pezzo di legno con su scritto a pennarello Morte al Papa e diverse perline e biglie e ammennicoli vari su cui è meglio non soffermarsi. Risalgono la riva e scendono per un lungo viale punteggiato da alberi spogli e artritici, un viale schiaffeggiato dal vento freddo e quasi ombroso. Tengono le mani in tasca e guardano davanti a sé o, al più, si fissano i piedi. E’ una di quelle situazioni in cui si ha la certezza che debba capitare qualcosa da un momento all’altro, qualcosa di memorabile o perlomeno poetico, ma non succede nulla. E allora camminano, mani in tasca, il vento che fa loro lacrimare gli occhi e gli ghiaccia il naso. Non capita nulla. Un cane che trotterella in direzione contraria alla loro, rassegnato, come preso a calci dagli sbuffi del vento, la coda tra le gambe e il naso puntato in terra. Lei dice, Penso piove oggi. Non piove, fa lui, al più nevica. Fa troppo freddo per nevicare, dice lei. Ci va il freddo per nevicare, fa lui. Troppo freddo no, troppo freddo porta pioggia, per la neve ci vuole lo zero. Allora il signor Franco F. tace, non ne vuol sapere di neve o pioggia e tacendo si leva dagli impicci. Le chiede quanto prende, lei risponde citando professionalmente cifre e prestazioni corrispettive, poi aggiunge, T’interessa? Mah, risponde lui, non so, potrebbe. Lei ride, Sempre potrebbe, dice, E’ così per tutti, mai uno che risponda chiaramente si, o no, tutti mah, forse, non si sa mai, vediamo, potrebbe, un domani, più tardi, chissà. Sempre così rispondono, gli uomini. E le donne? Le donne no, sono più decise quando vogliono scopare, quantomeno per la mia esperienza, se vogliono scopare con una puttana allora sono decise, questo lo posso testimoniare. Scopi anche con le donne? Se pagano, risponde lei, Se pagano posso scopare anche con un cetriolo, ma è difficile trovare cetrioli che paghino. Vero, conviene lui, serio. Dopo qualche passo aggiunge, Sicura che non lo vuoi il cane? Sicura. E poi come faresti a tornare a casa da tua moglie senza il suo cane? Non ti ammazzerebbe? No, dice lui, non più, una volta, forse, ma ora no. Non ti piace il Topo? E’ orribile, sembra una scultura di cacca coperta di peli; tra l’altro ti trova simpatica. Io, simpatica? Al cane? Si, lo vedo sai, l’ho notato prima. Davvero? Che carino. Ma non lo vuoi, conclude lui. No, non lo voglio. E se pagassi? Per cosa, per mollarmi il cane? Si, per lasciarti il cane. Se paghi ti posso fare un pompino, ma il cane te lo tieni. Pago per il cane e fai un pompino a me? Se proprio insisti faccio un pompino al cane, una roba veloce però, però poi te lo tieni. Il signor Franco F. prende a tossire di una tosse catarrosa e malata, Non ne vale la pena, conclude poi sputacchiando catarro in terra. Lascia fare, mormora lei, ma lui non la sente, per via del vento probabilmente, e del rumore dei passi di lei, dei suoi tacchi sul selciato. Oltrepassano un ponte attraversato in direzione contraria da altra gente, tra cui un vecchio chiuso nel suo paltò che, non si capisce bene perché, parla tra sé e sé e ride. Ride rumorosamente stando ben attento ad attirare l’attenzione dei passanti poi, arrivato all’altro lato del ponte si ferma, gira i tacchi e torna indietro, sempre parlando a voce alta e ridendo e facendo il rumore di un tacchino. Un tacchino enorme, grigio. Glu glu glu. Glu glu glu. Glu glu glu. La prostituta pensa che se il signor Franco F. le concedesse una carezza, in quel momento, una carezza lenta e spontanea che non avesse nulla di volgare, sulla nuca magari, lascerebbe tutto e gli donerebbe il suo cuore per sempre, o anche solo per qualche giorno. Il signor Franco F. invece immagina delle foreste invase da una nebbia bassa e riflette su certi pericoli nascosti nel folto tra gli alberi. Poi fischietta il motivo di una canzone di cui ha scordato le parole, anche se forse, a pensarci bene, non le ha mai conosciute. 


  Tagliando per strade vecchie e acciottolate, strette e umide, cioè attraversando una parte di quello che è in uso definire centro storico, vale a dire il vecchio perimetro della città antica, giungono fino alla Piazza. Per Piazza qui intendiamo quella enorme che sovrasta il fiume e che l’attraversa con un ponte per poi sfociare in una piazza più piccola che, per questo motivo, per via delle sue dimensioni ridotte cioè, scriviamo con la minuscola, una piazza più piccola appunto. Dalla piazza più piccola s’innalza una chiesa orribile, bianca, dedicata alla madre di Dio, che poi sarebbe la Madonna. Dietro la chiesa, s’inerpica la collina dove vive la gente per bene. Il signor Franco F e la prostituta invece che prendere a sinistra e dirigersi verso la piazza e quindi verso la chiesa orribile dedicata alla mamma di Gesù nostro Signore, prendono sulla destra e camminano amabilmente sotto i portici, risalgono la via che ha il nome del fiume poco distante e a volte parlano e altre, invece, tacciono limitandosi a mettere un piede davanti all’altro e a pensare a qualcosa che non è dato sapere. Incrociano persone, sia giovani che vecchie che di mezza età e sembra che non si pongano più il problema di essere visti in pubblico insieme. In effetti tutti li vedono, anche se non tutti li notano. Lei gli chiede se si ricorda il passaggio dal 2000 al 2001 quando tutti pensavano che il mondo sarebbe andato perduto. Perduto in che senso? chiede lui. Nel senso che sarebbe finito, che ci sarebbe stata la fine del mondo. No, fa lui, non ricordo. Be’, fidati, è così, morivano tutti di paura, per via della questione del mille non più mille, qualsiasi cosa voglia dire. E adesso, continua lei, guarda come siamo messi, di nuovo, a tremare per via del 2012, la profezia dei Maya, un’altra fine del mondo, di nuovo il terrore di qualcosa di irrazionale. E’ la paura di morire, spiega il signor Franco F., la gente ne è terrorizzata, è normale, e allora invece che pensare alla propria morte preferisce spaventarsi per la morte di tutti quanti. Nella quantità, ride lei, il singolo sparisce. Qualcosa del genere, fa lui. Poco alla volta attraversano anche il centro e si avvicinano alla stazione. Tu, chiede lei, hai paura di morire? Il signor Franco F. sta per rispondere quando rimane senza fiato. Lei alza il capo e lo fissa perché capisce che qualcosa si è verificato, qualcosa di terribile o straordinario, la fine di qualcosa o l’inizio di qualcos’altro. Lo guarda negli occhi, gli occhi di lui fissano qualcosa o qualcuno dall’altra parte della strada, sul marciapiede di fronte alla stazione. Quando anche lei dirige lo sguardo verso il punto d’interesse del signor Franco F. si rende conto di chi sia quella persona, e rimane anche lei incapace di respirare, per qualche secondo. La donna, dal lato opposto della strada sta aspettando lungo la banchina dei bus, ha gli occhi coperti da enormi occhiali da sole, cammina su tacchi alti e veste elegante. Elegante, ad essere obiettivi, è dir poco. Sembra una gran signora del secolo scorso trasportata in quello presente e appena uscita da una boutique di lusso, e alla distanza alla quale si trovano la prostituta e il signor Franco F. i lividi non si vedono, come se avesse la pelle di porcellana. Comunque non ha la pelle di porcellana. Attraversano la strada senza perdere d’occhio la donna, stando attenti a cercare di capire se lei, a sua volta, li stia osservando. Ovviamente non lo capiscono (a causa dei grossi occhiali da sole dietro cui si nasconde, lei e il suo sguardo), ma la raggiungono poco prima che il bus si fermi, apra la porta, la inghiotta e se ne vada. Salgono anche loro, dalla porta posteriore a soffietto. La prostituta non dice nulla ma dentro di sé pensa che la giornata si va facendo quantomeno interessante, al più addirittura pericolosa, e sorride lievemente, d’un sorriso come quello della Gioconda, suppergiù. Però, riflette, non saprà mai se il signor Franco F., quell’uomo strano e notturno, ha o meno paura di morire. Scuote la testa, pensa: certo che ha paura. Chi non ne ha?

  Fanno il viaggio in piedi, in silenzio. Il signor Franco F guarda fuori dai finestrini facendo finta di niente e solo di tanto in tanto sposta lo sguardo, in maniera fintamente casuale. All’interno del tram c’è puzza di pioggia, come se avesse appena piovuto e la gente là dentro fosse tutta zuppa di acqua e con gli ombrelli grondanti, ma non ha piovuto, e neppure sta piovendo in quel preciso momento. Non pioverà per giorni interi, settimane, e solo dopo un mese e mezzo si scatenerà un temporale che spazzerà la città e provocherà una serie di incidenti a catena il più serio dei quali sarà la causa della morte della figlia minore del sindaco. In quel momento la figlia minore del sindaco è ancora viva e non sospetta cosa l’aspetta. Pensa a tutt’altro ma volendo potrebbe tranquillamente perdersi ad immaginare il suo futuro, la scuola, l’università, il primo amore, certe vacanze su spiagge che paiono non aver fine, al tramonto, e poi un uomo più grande di lei di cui non riesce a scorgere i lineamenti e poi il suo ventre che si gonfia e che scalcia, e il dolore e la materia amniotica che cola da un feto orribile che a lei pare stupendo. Volendo potrebbe anche immaginare tutto ciò ed altro ancora. Mentre Franco F sbircia fuori dai finestrini e poco alla volta si rende conto di conoscere fin troppo bene il paesaggio che scorre all’esterno, la prostituta gli prende la mano destra e gliela stringe. Lui volta la testa, di scatto, e non avrebbe voluto. Si era detto di muoversi lentamente, per non dare nell’occhio. La fissa interrogativo, lei gli sorride. Lui la ucciderebbe e lei pensa che le piace stringere la mano di quell’uomo singolare. Se solo gli nascesse un gesto spontaneo e tenero, uno solo, potrebbe morire per lui, pensa, un solo gesto. Si dice, anche se non lo amo, morirei per lui, oggi. Domani non credo, forse no, ma oggi, adesso, qui ed ora, si. Ne sono certa si dice, e sorride tra sé, senza neppure rendersene conto. Lui, lentamente, sposta lo sguardo sulla donna misteriosa. E’ in piedi accanto all’uscita, si regge con un braccio alla barra in alto e se ne sta in perfetto equilibrio sui tacchi alti. Dietro le lenti scure ed enormi degli occhiali scuri è impossibile indovinare cosa le passi per la testa. Forse sta fissando a sua volta il signor Franco F, ma non è dato saperlo. Il resto del tram è pieno di gente stipata l’una contro l’altra, persone per lo più volgari o assolutamente anonime, eccezion fatta per un tizio sulla quarantina coperto di piercing e vestito con abiti stretti di pelle nera che porta una cresta viola di capelli in testa. Ha la bocca traforata da pezzi di metallo e gli occhi gli luccicano. Paiono due biglie scure. E’ una schiava, sussurra la prostituta all’orecchio del signor Franco F. Lui non risponde. Ormai ha capito dove si trovano e comincia a sospettare quale sia la meta della donna. Se ha visto giusto scenderanno alla fermata successiva. Gli tremano le gambe. Se ha visto giusto però non ha ancora capito cosa ci sia dietro a quella meta. Infila una mano – la sinistra, quella libera - in tasca, ora come ora vorrebbe solo che la prostituta accanto a lui sparisse. Più ci pensa e meno riesce ad immaginare un solo motivo per cui la donna misteriosa stia andando dove crede stia andando. Alla fermata successiva la donna misteriosa scende.

  La seguono a distanza. In realtà ci troviamo in una zona periferica e sarebbe sufficiente alla donna voltarsi per scoprire il loro gioco. Sono su una strada lunga e quasi vuota, attorno solo condomini enormi e il vento che fa strani giri tra i caseggiati e le macchine parcheggiate. E’ un vento freddo che sta spazzando via qualsiasi ipotesi di pioggia o neve, un vento che giunge dal nord, scendendo veloce dalle montagne e corre sul piano padano come un forsennato. Il signor Franco F si fa passare le chiavi che tiene nella tasca sinistra tra le dita della mano, e si gusta il freddo del metallo, cerca di immaginare un motivo per cui si stanno avvicinando al palazzo numero 7. Non sono le chiavi di casa sua. Hanno sempre tra i piedi il Topo. Lui odia il Topo. Il Topo odia lui. La donna che è con lui non vuole saperne di prenderlo con lei. Lui non vuole più saperne di avere tra i piedi la donna che, ora, è con lui. Si chiede perché mai c’abbia perso del tempo a parlarci insieme. Si domanda se davvero ci sono così tanti maniaci in giro. Se, alla fine dei conti, non sono casomai tutti quanti dei maniaci fottuti. Fottuti dal freddo e dal vento e da mille altre cose che non è il caso di stare qui ad elencare. Lui si ferma accanto ad un lampione che pare cresciuto casualmente ai lati di un parcheggio. Trattiene la donna per la mano. La donna si volta, si ferma, lo segue. Pensa, il signor Franco F, tante domande, troppe domande e non uno straccio di risposta. Lega il guinzaglio del Topo al lampione e dice alla prostituta che torneranno a prenderlo più tardi, ma entrambi sanno che non è vero. Il Topo verrà trovato il giorno dopo da una ragazzina che abita nei dintorni e che è compagna di scuola della figlia minore del sindaco. La figlia minore del sindaco adotterà il Topo che, di lì ad un mese e mezzo, si troverà sotto la pioggia a leccarle via il sangue dalla faccia, mugolando all’odore della morte della sua padroncina. Poi proseguono, a distanza.

  Lei gli domanda: ma tu, hai paura di morire? Lui si volta senza fermarsi dal camminare, la guarda, chiede Cosa? Hai paura di morire, ripete lei. Lui risponde, Non è detto che moriamo proprio oggi. Non ti ho chiesto se moriremo oggi. Se avessi paura di morire, fa lui, non ti avrei mai rivolto la parola, non mi sarei mai sposato. Se avessi paura di morire non sarei neppure venuto al mondo.
  Lei sorride, Che è come dire no, giusto?

  La donna misteriosa pigia un tasto del citofono, un tasto che il signor Franco F conosce bene: aspetta la vibrazione elettrica che apre il portoncino a vetri, entra. La porta si chiude alle sue spalle. Il vento freddo soffia versi strani, quasi allegri. La prostituta lo guarda da sotto in su, E adesso? Chiede. Il signor Franco F tira fuori il mazzo con le tre chiavi, ne sceglie una, la infila nella toppa e il portoncino a vetri si apre. Lei rimane senza parole e viene percorsa da uno o più brividi. Pensa: è una trappola. Pensa: sono d’accordo. Pensa: sono due maniaci, lui e la donna, e sono d’accordo. Mi portano in qualche alloggio affittato ad un prestanome e poi mi violentano, mi torturano, mi uccidono, mi fanno a pezzi e getteranno quel che resta di me alla discarica municipale, oppure davanti al Comune, o davanti a qualche chiesa giù in centro. Spediranno qualche dito e un orecchio a mio padre. Pensa: ne morirà. Pensa: non voglio morire. Non voglio che muoia mio padre, e non voglio morire io. Non voglio che muoia nessuno. Quando si trova a questo punto dei suoi ragionamenti si rende conto di essere su un pianerottolo, per mano al signor Franco F, davanti ad una porta chiusa.

  Chi c’è dietro quella porta?, domanda lei, a voce bassa, cospiratoria.
  La donna, fa lui, La donna del Parco.
  E tu come fai ad avere le chiavi di questo condominio?
  Ci abita una persona che conosco.  
  Lei prende un respiro fondo, ingoia un grumo di saliva spesso come sciroppo per la tosse, La persona che conosci vive dietro quella porta?
  Lui dice: si.

  A questo punto della faccenda il signor Franco F viene invaso dalla necessità di fumarsi una canna, ma sa che non ha senso, e soprattutto che non è il caso, e sa anche che deve levarsi da quel maledetto pianerottolo, perché potrebbe passare qualcuno e vederli lì, qualcuno che scende dai piani superiori o che sale su da sotto, e non è bene che qualcuno li veda lì, in piedi come due allocchi davanti alla porta, due estranei che non si sa bene come diavolo siano entrati nel palazzo. Poi ci pensa. L’estranea è lei, lui, al contrario, può correre il rischio di essere riconosciuto. Di vista, là dentro, lo conoscono in diversi. Poi ci pensa: perché deve evitare di essere riconosciuto? Perché non vuole che nessuno li veda? Poi ragiona: devono entrare, a questo punto è inevitabile. O se ne vanno e lasciano perdere tutto, o entrano. Estrae il mazzo, ha già una chiave in mano, una chiave diversa da quella che ha usato in precedenza per il portoncino a vetri dell’entrata, di sotto. Infila la chiave nella toppa. La donna gli domanda: la persona che vive dietro questa porta, chi è? Gira la chiave nella serratura. Si sente lo scatto, abbassa la maniglia.
  All’entrata ci sono i poster appesi, le pile di dvd e cd che s’innalzano da terra e, contro ogni logica, rimangono in una qualche forma di equilibrio che permette loro di non franare sul pavimento. Odore di marjuana stantia nell’aria chiusa, le pareti giallognole, poca luce ma naturale, filtrata da una finestra o da una porta e un balcone che, da dove si trovano, non è dato vedere, ma che comunque ci sono. Ci devono essere. Avanzano. L’alloggio non è molto grande. L’alloggio è minuscolo. L’alloggio è piccolo, poco pulito, odora di chiuso. Una piccola entrata. Un cucinino connesso direttamente ad un divano installato di fronte ad un televisore. Il televisore è spento. C’è polvere dappertutto, ma non in maniera esagerata. C’è la polvere di un mese, non di più. Ci sono altre due porte. Una, quella accanto al cucinino, il signor Franco F lo sa bene, è quella del bagno. L’altra, al fondo del divano, si apre sulla camera da letto. La porta, però, è chiusa. All’improvviso ha la sensazione – precisa e lancinante – di essere morto e di trovarsi nell’anticamera di un qualche inferno di passaggio. Poi pensa che con tutta probabilità è un pezzo che è morto, anche se non ricorda quando né in quali circostanze. La porta della camera da letto è chiusa, lui è morto. La prostituta al suo fianco a questo punto, forse, è morta anche lei: vai a sapere quando e come. Quando poggia la mano sulla maniglia della porta della camera da letto si risveglia, non pensa più di essere morto, non crede più che oltre quella soglia ci sia l’inferno, non pensa più a niente. L’abbassa. Spinge piano in avanti l’uscio. I cardini sono stranamente silenziosi, non cigolano. I suoi occhi e quelli della sua compagna d’avventura vengono pizzicati da una luce grigia ed intensa. Per qualche attimo i contorni delle cose si sfocano. Di nuovo l’idea di essere morto che lo prende alla gola. La donna misteriosa apre una valigetta rigida e nera, coi bordi in acciaio. Estrae qualcosa. Sul letto, un ragazzo, prono, col torso nudo ed un paio di pantaloni jeans tutti sbrindellati. Respira. Dapprincipio non ci fa caso, perché è concentrato sui movimenti della donna, ma poi si rende conto che respira, e che quindi è vivo. Poi, seguendo il movimento del dorso – inspirazione espirazione – nota il tatuaggio. E’ enorme. In realtà non lo è ancora ma lo sarà una volta terminato. Gli sale dai glutei, in parte coperti dai jeans, e gli prende tutta la schiena, gli copre le spalle, arriverà ad arrampicarglisi sul collo. La prostituta intreccia le sue dita con quelle del signor Franco F e gli domanda, con un filo umido di voce che le cola dalla bocca, Chi è? Il signor Franco F non risponde. Lo conosci? Il signor Franco F tace. Né il ragazzo né la donna misteriosa danno segno di essersi accorti della loro presenza. Se non è morto comunque vorrebbe morire, ora, in questo stesso istante, perché sa che il ragazzo gli porrà una domanda ben precisa. Sa qual è la domanda che gli verrà posta di qui a poco. Vorrebbe morire perché l’ultima cosa al mondo che vorrebbe è sentire quella determinata voce che gli pone quella determinata domanda. Si ferma ed osserva il disegno che si va componendo sulla schiena del ragazzo. E’ un tatuaggio complesso, dai colori verde, rosso e nero, ad occhio e croce la fattura è di scuola orientale. Pensa che sia così ma lo evince solo da certi tatuaggi che ha visto in televisione venir sfoggiati da appartenenti alle triadi cinesi. Cazzate. Comunque rimane senza fiato. C’è lui, c’è il parco, c’è la Luna, c’è sua moglie disegnata sulla scapola destra, ci sono le prostitute, la fontana, c’è il loro condominio, e sta prendendo corpo l’immagine di una donna martoriata di cui non si vede il volto. Al centro di tutto c’è il Topo. E’ seduto sulle zampe posteriori e pare governare tutto quello strano universo. Ha gli occhi come biglie, riflettono ogni cosa. Il signor Franco F prende a tremare, appena. La prostituta gli stringe la mano, la comprime all’interno della sua fino a fargli (e a farsi) male. Cosa hai fatto alla mamma?, domanda il ragazzo. Il signor Franco F non risponde. Non si muove. Non respira. La prostituta all’improvviso scioglie la sua mano da quella dell’uomo misterioso che attraversava il Parco la notte, lui e il suo maledetto cane. Dov’è la mamma? Domanda il ragazzo. La donna misteriosa ora stringe in mano una specie di matita elettrica, tocca un tasto e parte un vibrazione insistente e continua, come un ronzio demenziale che pervade la stanza da letto. Cosa hai fatto alla mamma? La donna misteriosa si volta, lo squadra da capo a piedi, freddamente, il signor Franco F la fissa negli occhi, vorrebbe essere morto, o moribondo quantomeno, privo della capacità - certificata - di intendere e di volere, la fissa e trema di orrore, la fissa e non la riconosce.